Dolores Aleixandre RSCJ
In un piccolo museo di
Nazaret si conserva uno strano capitello
appartenente ad una chiesa molto antica: una figura
femminile (la Fede?) con una corona da regina tiene
in mano un pastorale coronato da una croce, avanza
stringendo la mano di un altro personaggio (Pietro?,
un apostolo?), il quale, visibilmente titubante,
viene spinto, suo malgrado, in una direzione verso
la quale fa resistenza ad andare.
Le due figure evocano atteggiamenti molto diversi:
la “conduttrice”, appare piena di sicurezza, si
appoggia alla croce come ad un pastorale e, traendo
da lì la sua forza, prende l’iniziativa di afferrare
la mano dell’altro personaggio per spingerlo a
seguirla. L’atteggiamento di quest’ultimo è di
ripiegamento, resistenza e timore: la sua mano
destra, sostenuta dalla sinistra dell’altra, ha
perso il suo potere sociale e cammina trascinato
dalla Fede; con la mano sinistra tiene il suo
mantello, come se avesse paura di restare nudo
davanti agli altri. Non è lui che abbraccia la Fede,
ma la Fede che lo afferra, come una preda, e non lo
molla. Il capitello presenta un altro dettaglio
particolare: mentre il volto della figura “condotta”
è perfettamente distinguibile, quello della
“conduttrice” appare indefinito. Possiamo intuire
cosa hanno alle loro spalle, ma il luogo di arrivo
rimane aperto e possiamo solamente immaginarlo.
L’immagine mi è tornata alla memoria mentre iniziavo
questa riflessione sulle icone della Samaritana (Gv
4,1-42) e del Samaritano (Lc 10,25-37) e vorrei
proporvi di lasciare che siano proprio questi ultimi
a dare un volto concreto alla figura senza volto,
che tiene per mano l’altra, e di identificarci con
la seconda. In essa possiamo sentirci rappresentati
tutti, uomini e donne che abbiamo abbracciato, nella
Chiesa, questa particolare forma di amore che il
Padre ha fatto scoprire ad alcuni e che chiamiamo
“Vita Consacrata”. Ancora una volta ci ritroveremo
dinanzi alla sorpresa per la quale seguire i passi
del Signore conduce verso le più diverse
realizzazioni .
Lasceremo che questi due personaggi evangelici, che
rimangono senza nome anche nei testi, (forse perché
guardandoli possiamo leggervi il nostro), ci
prendano per mano e siano i mistagoghi che ci
guidano nella nostra sequela del Signore Risorto.
Infatti, la parola che risuona in essi ha il potere
di cingerci e portarci oltre quei luoghi in cui,
oggi, in questo inizio di millennio, possiamo
trovarci. Non ci è dato di conoscere con chiarezza
dove ci porteranno: la nostra parte consiste nel
cedere alla loro spinta e lasciarci portare, senza
pretendere di conoscere la fine del viaggio. Per
tuas semitas duc nos quo tendimus: "Per le tue vie,
conducici verso dove tendiamo", recita un antico
inno della Chiesa. Evitiamo, sin dall’inizio, il
pericolo di partire da noi stessi e dalla nostra
risposta: è l’amore fontale di un Dio che ci ama
appassionatamente che può esercitare su di noi la
sua capacità attrattiva attraverso queste due icone.
La nostra parte arriverà dopo, sotto forma di
“passione per Lui, passione per l’umanità" e come
risposta a questo amore.
Come nel racconto della creazione, nella Genesi,
assisteremo ad un dramma in tre atti: partendo da
una situazione iniziale di carenza, caos e vuoto,
contempleremo l’azione creativa del Signore sui
personaggi e vedremo la loro trasfigurazione alla
fine dei racconti. Anche se la nostra attenzione si
centrerà sulle due icone della Samaritana e del
Samaritano, ci lasceremo interpellare anche da un
terzo personaggio: lo Scriba che dialoga con Gesù
nel racconto di Luca e che appare sotto il segno
dell’ambiguità: imparerà a trovare la “vita eterna”
là dove la trovò il Samaritano della parabola? Si
lascerà modellare “a sua immagine e somiglianza”,
secondo la proposta di Gesù? Luca non ci svela quale
fu la sua reazione e questa indeterminatezza che
lascia aperto il finale fa sì che oggi possiamo
sentirci riflessi in lui, con la nostra libertà
sfidata da quello stesso invito che egli ascoltò
dalle labbra di Gesù: “Va’ e anche tu fa’ lo
stesso”.
Volgeremo inoltre il nostro sguardo su altri
personaggi secondari delle due scene: i farisei che
Giovanni presenta come coloro che determinano la
decisione di Gesù di abbandonare la Giudea e
dirigersi in Galilea, passando per la Samaria; i
discepoli, che portano da mangiare a Gesù e
rimangono sconcertati nel vederlo parlare con una
donna ; i samaritani spinti verso Gesù dalla
testimonianza della donna; l’uomo assalito dai
banditi e rimasto mezzo morto; il sacerdote ed il
levita che passarono dritto davanti a lui; l’oste
che accettò di occuparsi e prendersi cura del
ferito.
Non ci porremo come spettatori davanti a nessuno di
questi personaggi, bensì li guarderemo come se
fossero nostri contemporanei, consapevoli che la
loro storia, i loro comportamenti e le loro reazioni
possono essere le nostre. Accoglieremo inoltre la
buona notizia che l’opera della creazione che
contempliamo in essi, ci invita oggi a lasciarci
modellare, anche noi, dalle mani creatrici di Colui
che realizzò in essi la sua opera di trasfigurazione
.
1. “Al principio” era il nulla
Così come nel racconto della creazione,
nelle due scene evangeliche si parte da una
situazione di “caos”, carenza e vuoto e i personaggi
appaiono caratterizzati dal non-sapere e dal
non-potere: la donna che si trova con Gesù accanto
al pozzo e l’uomo che soccorse il ferito sono
samaritani: gente caratterizzata dalla dissidenza,
di dubbia fama e oggetto di sospetto. La donna
appare sotto il segno del "non-possedere": “non ha”
marito e quello che ha “non è suo marito”. Sente su
di sé il compito penoso di dover andare tutti i
giorni al pozzo a prendere l’acqua; è prigioniera di
convenzionalismi etnici e religiosi e li esprime
apertamente davanti a Gesù. Il suo successivo
comportamento (prendere l’iniziativa di
“evangelizzare” la sua gente), è un atto di audacia
improprio per una donna.
Per quanto riguarda lo scriba, egli non sa come
accedere alla “vita eterna” e gli manca qualcosa che
sta cercando: sentirsi “giustificato”. Anche se tra
questi e la donna sembra esserci un abisso, li
unisce la stessa situazione di precarietà e di
ricerca della vita: la donna desidera l’"acqua viva"
di cui le parla Gesù e l’uomo desidera possedere la
“vita eterna”. Questa mancanza di vita li fa
partecipare, in un certo senso, alla situazione di
quell’uomo ferito della parabola che era “mezzo
morto”.
Anche Gesù si trova in una situazione di bisogno e
vulnerabilità: è forestiero, ha sete, non possiede
una brocca e l’acqua del pozzo gli è inaccessibile.
Anche nel suo incontro con lo Scriba appare in
svantaggio: davanti a lui vi è un esperto della
legge che "si alza" con l’intenzione di "metterlo
alla prova". Questo galileo di Nazaret sarà
all’altezza di sostenere l’argomentazione di un
dottore?
L’itinerario che ha scelto (attraversare l’ostile
Samaria) è insolito e pericoloso. Il suo chiedere
l’acqua a una donna altera gli schemi convenzionali
delle relazioni tra ebrei e samaritani e tra uomini
e donne e suppone un comportamento riprovevole, che
trasgredisce i costumi del suo tempo. Dinanzi alla
donna si presenta caratterizzato da un “non avere”
che nel vangelo di Giovanni descrive sempre uno
stato deficitario ed il rischio di restare fuori
dalla vita: non hanno vino 2,3; non ho nessuno che
mi immerga nella piscina 5,7; non avete nulla da
mangiare?...No. 21,5 .
Tuttavia, ciò che risulta ancora più sorprendente è
che il Padre stesso partecipi in qualche modo di
questa situazione di carenza: Gesù dirà di Lui che
sta “cercando” ("il Padre cerca tali adoratori..."
Gv 4,23), e nella parabola del Samaritano, in cui
non nomina né fa alcun riferimento al Padre,
constatiamo una presenza di "grado zero".
Tuttavia, così come il Dio Creatore ha operato sul
caos e la polvere della terra, i narratori delle due
scene “lavorano” con le carenze dei loro personaggi
più che con i loro elementi positivi: né la
diffidenza iniziale della donna ed i suoi "cinque
mariti", né il desiderio di giustificarsi dello
Scriba, saranno un ostacolo all’incontro con Gesù.
Tanto meno lo saranno l’eterodossia del popolo
samaritano o i pregiudizi etnici e di genere dei
discepoli: i primi verranno portati alla fede dalla
testimonianza della donna; ai secondi Gesù rivelerà
che suo cibo è fare la volontà del Padre suo e che
il suo incontro con la donna e con il popolo
samaritano sono già parte del raccolto desiderato.
Come contrasto, i personaggi che appaiono rispettosi
dell’ordine vigente e la cui posizione di
superiorità è data per certa, restano fuori da ogni
cambiamento o trasformazione: i farisei dell’inizio
del testo di Giovanni, così sicuri nel loro giudizio
sulla rivalità tra Gesù e Giovanni; il sacerdote ed
il levita della parabola, convinti di aver evitato
l’impurità allontanandosi da un probabile cadavere.
Altri rappresentanti dell’ortodossia proiettano la
loro ombra su entrambe le scene: nel contesto
immediatamente precedente all’incontro di Gesù con
la Samaritana, Nicodemo è presentato come "fariseo e
maestro della legge" (Gv 3,1) ma, di fronte a lui, è
l’eterodossa Samaritana che finisce per accettare
Gesù (Nicodemo lo farà solo alla fine del Vangelo.
Cf Gv 19,39). E precisamente prima del dialogo con
lo Scriba, Luca inserisce la scena in cui Gesù
benedice il Padre per aver nascosto certe cose ai
dotti e sapienti e averle rivelate ai piccoli (Lc
10,21). Coerentemente con questa affermazione, sarà
un "ignorante" samaritano ad adottare il
comportamento adeguato e non un "dotto" giurista.
La parabola risulta tuttavia ancora più polemica per
l’insolita prospettiva che adotta: al centro vi è un
uomo mezzo morto e tutti i personaggi trovano un
posto a partire da questi; non si parte dall’alto,
dalle discussioni teoriche sull’identità del
prossimo, ma dal basso, dal baratro in cui si trova
l’uomo ferito .
Con tutti questi elementi di trasgressione, rottura
della logica ed alterazione degli schemi
convenzionali, i narratori sembrano voler
de-stabilizzare o dis-orientare il lettore, nel
senso di farlo uscire dai normali schemi:
l’imprevedibile si sostituisce a ciò che è tipico e
la sorpresa alla normalità. Ciò che è abituale
lascia il posto alla novità ed il lettore, che era
entrato prima nel punto di vista della donna e aveva
valutato la preoccupazione dello Scriba, si trova a
confrontarsi subito dopo con alcune reazioni di Gesù
che non sono quelle che si aspetterebbe. Si tratta
di un “effetto sorpresa” che mette in discussione
valori, giudizi, costumi e ruoli stabiliti .
Questi equivoci e false apparenze iniziali,
tuttavia, rivelano alla fine la loro verità: gli
spazi profani e di intemperie in cui si svolgono le
due scene (un pozzo in mezzo alla campagna, una
strada piena di pericoli...), fuori dal riparo dei
centri di sicurezza, quali la città o il tempio, si
presentano come luoghi di incontro con Dio. Dei tre
personaggi della parabola, non sono quelli che
portano il distintivo della dignità (il sacerdote ed
il levita) a comportarsi nel modo appropriato, ma
proprio quello che appartiene ad un popolo di
eretici e scismatici. Il viandante assetato e
indifeso in terra ostile agisce come il Figlio di
Dio che dà acqua viva e si rivela il vero
conoscitore di come si eredita la vita eterna.
2. "Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra
immagine e somiglianza (...)
Allora plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò
nelle sue narici un alito di vita" (Gn 1,26; 2,7)
Nel corso dei due racconti ascoltiamo le
parole che Gesù rivolge ai personaggi e assistiamo
alla sua azione creatrice e ricreatrice su di essi.
Egli è il vero protagonista e colui che guida
entrambe le scene, colui che "progetta" le strategie
dell’incontro:
Da abile vasaio ripete la stessa azione che il
narratore della Genesi attribuisce a Dio: la
Samaritana, come l’argilla originaria, viene pian
piano modellata pazientemente e, così come il primo
adamo ricevette l’alito di Dio che lo trasformò in
un essere vivente, (Gn 2, 7), la donna riceve
l’acqua della vita. Il Samaritano della parabola,
fatto "a immagine e somiglianza" di Dio, è proposto
come modello per lo Scriba: "va’ e fatti a immagine
e somiglianza di quel samaritano, perché egli è
adesso icona dell’animo misericordioso di Dio" .
Così come nel paradiso terrestre ogni essere creato
ricevette un nome, coloro che entrarono in scena
senza un nome proprio, acquistano una nuova identità
offerta a tutti: “cercati dal Padre”, “premiati dal
suo dono”, “chiamati a fare come il Samaritano”...
Da abile pescatore, Gesù getta le sue reti e lancia
i suoi ami per tirar fuori coloro con cui dialoga
(la Samaritana e lo Scriba) dalle acque ingannevoli
della volgarità e del desiderio di
auto-giustificazione che li sommergono.
Da buon pastore che conosce le sue pecore, le fa
uscire dal deserto della superficialità e
dell’intellettualismo, le guida man mano verso ciò
che è profondo ed autentico, "fischia" loro per
tirarli fuori dalle gole buie delle loro scuse e le
porta nella terra del Dono: quello ricevuto (il dono
dell’acqua viva) e quello che bisogna dare (salvare
la vita di chi sta sul punto di perderla). Facendo
"onore al suo nome" , la sua parola comunica loro la
certezza che, qualunque sia la negatività in cui si
trovano, Egli ha il potere di aprire dinanzi a loro
una via d’uscita: "Se conoscessi il dono di Dio...",
"Invece un samaritano lo vide e gli si fece
vicino...". In questo consistono la "sorgente di
acque tranquille" ed i "prati di erba fresca" in cui
li fa riposare.
Da maestro di saggezza ed abile conversatore, usa
tutte le risorse della parola e inventa strategie di
avvicinamento: chiede, dialoga, argomenta, propone,
cerca di convincere, racconta, suggerisce, afferma,
valuta la posizione dell’altro/a, provoca reazioni
di identificazione o rifiuto, si azzarda a
pronunciare imperativi. Segue la donna e lo Scriba
nei loro pretesti e li usa per portarli su un
terreno in cui non hanno scappatoie e devono fare i
conti con la loro verità o con la loro ignoranza:
“Non ho marito...”, "Chi è il mio prossimo?. Prima
fa proprio il loro punto di vista per poi portarli
nella direzione in cui vuole Lui, non si ritira di
fronte alle difese con cui si fa scudo la donna, né
di fronte al tentativo dello Scriba di rifugiarsi
nel campo del teorico: il Gesù "stanco” dell’inizio
o consapevole del fatto che lo Scriba vuole
"metterlo alla prova", non si stanca di fronte alle
resistenze e alle trappole dei suoi interlocutori e
continua a provare diverse tattiche relazionali.
Durante la conversazione con la donna, smonta pian
piano i suoi equivoci: lei lo considerava solamente
una persona che riceveva la sua acqua, ma lui le
svela la sua condizione di datore e quando la donna
si chiude in sé e si difende, non la interpella su
ciò che fa ma bensì su ciò che è. Le risposte
enigmatiche e provocatorie che man mano le da, la
portano direttamente verso di Lui e, di conseguenza,
verso il Padre.
Da amico che cerca di creare rapporti personali, in
nessun momento esprime giudizi morali di
disapprovazione o di rimprovero: invece di accusare,
preferisce dialogare e proporre, usa un linguaggio
che va dritto al cuore di coloro con cui parla e
ricorre alla strategia del cosiddetto "spazio vuoto"
:
- nella conversazione con la donna, la frase “se tu
conoscessi chi è colui che ti dice...”, agisce con
un “effetto distanza” e fa sì che tra i due si crei
uno spazio in cui la donna si senta riconosciuta e
possa porsi delle domande: l’identità di Gesù ("un
Giudeo"), così chiara per lei all’inizio della
conversazione, viene messa in discussione. In questa
gestione dello spazio, Gesù agisce con lentezza, non
si affretta a proporsi come centro ma avanza "a
spirale", per risvegliare pian piano l’interesse
della donna per il suo avere accesso ad una sorgente
di vita "altra".
- nel dialogo con lo Scriba, non risponde alla sua
domanda dandogli una lezione, né argomentando con i
suoi stessi codici: cerca anche qui un altro “spazio
vuoto” tra i due per dargli l’opportunità di
scoprire da solo la risposta alla sua domanda.
Attraverso la parabola, si industria per capovolgere
il concetto di "prossimo" che aveva lo Scriba, posto
in un terreno di sottili disquisizioni teologiche e
abituato a fare domande, argomentare e discutere a
livello teorico. Nulla di tutto ciò imbroglia né
distrae Gesù, bensì lo porta su un altro piano, nel
quale l’esperto non è “quello che sa”, ma “quello
che fa” .
Da perfetto artista e pittore, traccia i tratti del
Samaritano facendo - senza saperlo? – il proprio
autoritratto: nell’immagine dell’uomo che, mosso a
compassione, si fece vicino al ferito, vediamo
riflessi i valori, le convinzioni e le preferenze
dello stesso Gesù, la sua teologia e la sua
catechesi, la sua immagine del Regno, la sua critica
profetica, ciò a cui dà importanza e ciò a cui non
la dà (culto, tempio, osservanza...), ciò che
considera peccato, omissione o virtù, la sua
proposta di comportamento. L’icona del Samaritano si
trasforma così nella versione pittorica delle
beatitudini.
Da esperto di umanità, si mostra profondamente
attento ed interessato all’interiorità dei suoi
interlocutori: legge nel cuore dello Scriba la sua
intenzione di metterlo alla prova e più tardi di
giustificarsi; del Samaritano sottolinea che la
compassione fu all’origine del suo comportamento nei
confronti dell’uomo ferito; alla donna svela la
sorgente che può sgorgare dal suo profondo, in
contrasto con l’antica legge ed i comandamenti
esterni, e le rivela anche l’interiorità del Padre e
la ricerca che lo abita.
Da profeta posseduto dal fuoco dell’Assoluto di Dio
ed appassionato per la sua giustizia, mette in
discussione, scuote e spoglia i suoi avversari da
qualunque pretesto o compromesso che li allontani o
distragga dalla verità originaria che li riguarda in
modo ineludibile: Dio come Padre e gli esseri umani
come prossimi.
3. "Dio li benedisse..."(Gn 1,28)."...e
l’uomo divenne un essere vivente" (Gn 2,7)
I personaggi delle due scene (Samaritana,
Scriba...), sono chiamati a una “nuova creazione” e
dinanzi a loro si presenta un’alternativa di scelta:
rimanere nelle loro vecchie convinzioni e
conoscenze, continuando a cercare l’acqua viva e la
giustificazione nei pozzi asciutti dei santuari,
delle leggi e dei costumi, o scegliere la “vita
eterna” e lasciarsi trascinare dall’offerta di
trasformazione e “trasfigurazione” di Gesù.
3.1. Un processo pasquale
Nei due testi si assiste ad un passaggio da un modo
di pensare e giudicare ad un altro, da determinati
costumi, strutture e convinzioni ad altri e, in
questo "processo pasquale" assistiamo ad una
“morte”: ciò che sembrava definitivo risulta essere
provvisorio e i principali sostegni e sicurezze, che
erano validi all’inizio di ciascun testo, rivelano
la loro incapacità di trasmettere “acqua viva” e
“vita eterna” e vengono superati dalla novità del
comportamento e delle parole di Gesù:
- la parola della legge alla quale si attaccava lo
Scriba per giustificarsi, appare una mediazione
incapace di dargli la vita e di rispondere alla sua
domanda sul prossimo. Se la donna rappresenta coloro
che cercano di appagare la propria sete nelle
tradizioni degli antenati, lo Scriba conosce il
prossimo solamente attraverso l’erudizione. Gesù,
invece, non propone nessun ideale esterno, bensì
invita i suoi interlocutori ad accogliere un dono
gratuito e a non concentrarsi su se stessi e sulla
loro perfezione, ma sul rapporto con i loro simili .
Prescinde da disquisizioni e casistiche scolastiche
e ricorre al livello elementare: quello dell’essere
umano bisognoso, comune a tutti e al di sopra di
ogni ideologia o religione, e a chi si riconosce
come prossimo attraverso il coinvolgimento. Le
vecchie istituzioni sono sostituite dalla "via
nuova" della sua carne (Cf. Eb 10,20) e la sua
stessa umanità, fragile, si trasforma in luogo di
incontro: la sua stanchezza iniziale e la sua sete
rendono possibile lo scambio e la reciprocità; la
sua capacità narrativa fa sì che colui che si
muoveva nel terreno della teoria, entri in contatto
con persone reali, con comportamenti reali e impari
da lui che la vera sapienza consiste nel mostrarsi
umano.
- il solo “sapere" appare come qualcosa di sterile:
sia la Samaritana che lo Scriba si rivolgono a Gesù
in forma interrogativa, aspettandosi da lui un
progresso sul terreno della conoscenza ("Come mai mi
chiedi...?", "Da dove hai…?", "Sei tu forse più
grande...?", "Che devo fare?", "Chi è il mio
prossimo...?"). Le parole della donna, che
riflettono le convinzioni del suo popolo, affermano
le differenze tra etnie, convinzioni o teologie,
dividono le persone e precludono loro la possibilità
di entrare in relazione, riducono le aspettative sul
Messia, che possa farli accedere a un sapere (“ci
annunzierà ogni cosa”) . In quanto allo Scriba,
nemmeno ciò che "sa" ha potuto dargli la "vita
eterna" e, nonostante conosca bene la legge, ignora
chi sia quel prossimo che deve amare. Gesù offre ad
entrambi un “sapere alternativo” e li invita ad
uscir fuori dai loro “molteplici saperi” per entrare
in una verità alla quale non si giunge attraverso la
via della genericità, ma attraverso la realtà
tangibile e concreta. Le sue parole non puntano ad
ampliare le loro conoscenze, ma a provocare in essi
un cambiamento di vita. Tanto il "pozzo di
Giacobbe", simbolo della sapienza che dà la legge ,
come “ciò che sta scritto in essa” (Lc 10, 26)
perdono la loro validità, sostituiti dall’"acqua
viva" e dall’invito non a leggere, ma a guardare le
persone e i loro comportamenti reali e a fare come
il Samaritano. È facendo e non sapendo che si
ottiene la vita. Un sapere definitivo sostituisce
quelli provvisori, e non è nel futuro ma adesso e
grazie alla parola di Gesù, che si accede alla
novità di questa conoscenza.
- i ruoli e gli stereotipi di genere appaiono
anch’essi superati: la donna, sorprendentemente,
prende la parola e si trasforma in testimone ed
evangelizzatrice dei suoi concittadini, svolgendo un
ruolo riservato agli uomini. In quanto al
Samaritano, è descritto da Gesù come qualcuno che si
prende cura dell’uomo mezzo morto e realizza con lui
azioni generatrici di vita: si avvicina, lo tocca,
lo cura, lo solleva da terra, se lo carica sulle
spalle, gli cerca alloggio e protezione e fa in modo
che continuino a curarlo e a nutrirlo. Le funzioni
che esercita sono generalmente considerate femminili
e materne.
3.2. Alcuni personaggi trasfigurati
La Samaritana entra in scena come “una donna di
Samaria” e ne esce come conoscitrice della sorgente
di "acqua viva", consapevole di essere cercata dal
Padre che vuole fare di lei una adoratrice. La sua
identità trasformata la fa diventare una
evangelizzatrice che riesce, attraverso la sua
testimonianza, a far sì che molti si avvicinino a
Gesù e credano in Lui. Colei che parlava di
“attingere l’acqua” come di un compito che richiede
sforzo e lavoro, abbandona ora la sua brocca: Gesù
le ha svelato un dono che non richiede nessuno
scambio e che le viene dato gratuitamente.
Il Samaritano che era entrato in scena anch’egli in
modo anonimo e identificato solo per la sua
appartenenza etnica, svela alla fine la sua vera
identità: la misericordia che lo abitava lo ha fatto
comportare da prossimo per chi aveva bisogno di lui
per continuare a vivere. Riceve da Gesù un nome
nuovo: “colui che ebbe compassione”. In quanto allo
Scriba, che esprimeva il suo desiderio di vita
eterna in termini di possesso ("ereditare..."),
viene sfidato a cambiarlo attraverso un gesto di
privazione simile a quello del Samaritano.
Come un acqua “che zampilla per la vita eterna”, una
corrente di gratuità percorre i due testi e ne
trasfigura i personaggi: la donna, dopo il suo
tentativo di portare a Gesù la sua gente, i suoi, si
ritira e lascia che siano essi stessi a scoprirlo e
credano da soli e non per la sua testimonianza. È
stata guidata fino alla sua stessa interiorità,
attraverso un paziente percorso che l’ha fatta
passare dalla dispersione alla unificazione e lei,
discepola di questo Maestro, attira e conduce a lui
quelli del suo popolo. Anche il Samaritano si ritira
e lascia libero l’altro, in un atto di “sublimazione
genitale”, come la madre che dà alla luce e taglia
il cordone ombelicale del figlio per non farlo
rimanere dipendente da lei.
Il “prossimo” che nelle parole dello Scriba era un
riferimento ambiguo, senza volto né concretezza e di
difficile identificazione, emigra dalla casistica
legale e diventa qualcosa di concreto, in carne ed
ossa. Non può essere definito per la sua maggiore o
minore vicinanza rispetto a un altro: adesso appare
“domiciliato” nel cuore di ogni essere umano che si
relaziona con altri come un tu, e diventa chiunque,
in modo disinteressato, si faccia carico di altri e
permetta loro di vivere.
Gesù, del quale sapevamo all’inizio che era un
viandante giudeo, stanco e assetato, si rivela alla
fine come la sorgente di acqua viva, come Signore,
Profeta, Messia e Salvatore del mondo, come il
Figlio che alimenta la volontà di suo Padre.
Definisce se stesso per la sua capacità di creare
rapporti interpersonali: "colui che parla con te" e,
come il Signore nella prima Alleanza, conduce la
donna in un nuovo "deserto" per " parlare al suo
cuore” e in lei si compie la promessa fatta a
Israele: “E tu conoscerai il Signore" (Os 2,22).
Nelle sue conversazioni sembra avere un’autorità che
gli permette di esprimersi con il linguaggio
imperativo dei mandati divini: "credimi, donna", le
dice; “fa’ questo e vivrai”...,"anche tu fa’ lo
stesso”, intima allo Scriba.
L’immagine di Dio appare anch’essa trasformata: non
è il dio impavido e distante, che dimora nei
santuari fatti da mani umane o che detta leggi, né
l’eterno ricevitore che esige omaggi, doni o
sacrifici nel Tempio. Attraverso Gesù si rivela come
un Dio generatore di vita, che dà e cerca, colui che
si può chiamare "Padre" e che non si lascia
rinchiudere né possedere perché è Spirito. Se ci
cerca è perchè desidera accrescere la nostra
esistenza e infonderci gioia e pienezza. Per
incontrarlo non bisogna guardare verso l’alto
perché, colui che scese in un rovo del deserto,
sgorga come una fonte nel profondo di ogni cuore e
svela la sua presenza nelle persone ferite che
giacciono nei fossi. Il "culto in spirito e verità”
che Egli cerca si trova, secondo la migliore
tradizione profetica, alla portata di chiunque si
avvicini ad un altro per prestargli aiuto. Mentre il
sacerdote ed il levita passarono oltre per non
restare impuri e poter offrire sacrifici, il
Samaritano, al di fuori del mondo sacrificale, non
ha avuto bisogno di cercare fuori l’offerta perché
portava dentro di sé l’unica cosa che Dio richiede:
la misericordia e la compassione (Cf. Mic 6,8).
Non assistiamo ad un finale “normale” e tipico
secondo le convenzioni del tempo (la donna sarebbe
tornata dalla sua gente con la brocca piena
dell’acqua del pozzo; lo Scriba sarebbe rimasto
soddisfatto dopo aver enunciato la Legge e ricevuto
una risposta a livello teorico...), bensì ai due
viene offerto un altro orizzonte che rappresenta una
sfida, una via d’uscita imprevedibile e sorprendente
verso un rapporto vivificante (“l’acqua che zampilla
per la vita eterna”...; “fa’ questo e vivrai”...).
In entrambi i casi, la rottura del progetto iniziale
(attingere l’acqua, trovare una risposta ad una
domanda o continuare il viaggio progettato nel caso
dei personaggi della parabola...) è la condizione
per accedere ad un progetto più grande (ricevere
l’"acqua viva", farsi "prossimo" e praticare la
"misericordia"). La brocca, abbandonata e vuota, ed
i gesti del Samaritano che estrae e consegna ciò che
gli apparteneva (olio, vino, denaro...),
testimoniano che è attraverso la perdita e la
donazione che si guadagna la vita (Cf. Mc 8,35).
3. 3. Un finale aperto
Tuttavia, l’epilogo è diverso nei due testi: mentre
il percorso della donna sfocia in una nuova
situazione relazionale e, contagiata dal movimento
di Gesù, allarga il cerchio di avvicinamento, lo
Scriba appare posto di fronte ad un’alternativa. Non
sappiamo se continuerà a restare chiuso nella
prigione della legalità, se "passerà oltre" o se,
come il Samaritano, cercherà la vita eterna là dove
si trova: in coloro che sono privati della vita. Il
lavoro di conversione profonda intrapreso da Gesù
con lui rimane aperto: come nel dialogo con il cieco
Bartimeo, Gesù gli ha chiesto in modo subliminale:
"Cosa vuoi che faccia per te?", e gli ha offerto
un’altra prospettiva e un altro punto di ancoraggio,
diverso dal suo proprio io: la persona dell’altro.
Lo Scriba, cieco, era convinto che la nozione di
prossimo si definisse in relazione a se stesso e
cercava di sapere quale fosse il confine tra coloro
che erano suo prossimo e coloro che non lo erano.
L’ottica che Gesù gli propone, però, è totalmente
diversa: "Non sta a te decidere chi è tuo prossimo,
bensì devi mostrarti prossimo di ogni essere umano
che si trova nel bisogno. Il centro non sei tu, è
l’altro, verso il quale devi rivolgerti. Contempla
quel samaritano: è un’icona di alterità e di
gratuità, fatta a immagine e somiglianza di Dio
stesso. Impara da lui la giustizia che dà accesso
alla vita eterna : quando qualcuno era incapace di
salvare la propria vita, egli ha scelto la vita in
nome suo e la sola traccia che ha lasciato del suo
passaggio è questa stessa vita".
Dopo questa passeggiata contemplativa lungo i due
testi evangelici, possiamo fare un passo in avanti e
chiederci verso dove "ci tirano" i loro personaggi,
in quale direzione sembrano volerci condurre.
4. Presi per
mano dalla Samaritana
Se la donna samaritana ci prendesse per mano, cosa
ci direbbe e verso dove ci porterebbe?
Sicuramente ci proporrebbe di accompagnarla fino al
pozzo di Giacobbe e ci racconterebbe come è arrivata
lì con la brocca vuota delle sue carenze e
dispersioni, ma ci direbbe anche che questo non ha
rappresentato alcun ostacolo perché l’uomo che la
aspettava realizzasse in lei la sua opera. Inoltre
ci direbbe che, se qualcosa ha imparato lì da Gesù,
è stato che Egli non si arrende mai di fronte alle
nostre resistenze e ai nostri attaccamenti, ma, come
Figlio che agisce secondo quanto ha visto fare al
Padre (Cf. Gv 5,19), cerca in noi quel "punto di
rottura" dal quale emerge la nostra sete più
profonda, come se fosse convinto che solamente un
desiderio più grande può relativizzare i piccoli
desideri. Forse per questo ha lasciato che la donna
esprimesse dinanzi a lui i suoi pregiudizi, le sue
resistenze e diffidenze, finché è emerso il suo
anelito di vita che si nascondeva dentro al suo
cuore, e allora egli ha "attinto" da quel desiderio:
"Se conoscessi il dono di Dio...". Senza ciò che
accade prima, la donna non avrebbe potuto
riconoscere le sue insoddisfazioni; senza la seconda
parte, l’avrebbe lasciata andare con la sua brocca
piena di un’acqua incapace di togliere la sete .
Se le chiedessimo della trasformazione del suo
desiderio, ci inviterebbe a non lasciare mai che
qualcosa o qualcuno soffochi o ostacoli ciò che è
stato all’origine della nostra sequela di Gesù nella
Vita Religiosa, ma a mantenerlo sempre vivo e
inappagato perché lì si nasconde la nostra migliore
"riserva di umanità" e ciò che ci permette di
restare aperti e in attesa dinanzi a questo Dono che
non arriveremo mai a conoscere pienamente.
Sull’esperienza missionaria con quelli del suo
popolo, potrebbe parlarci di quali strategie ha
usato per portali a Gesù: aveva imparato da Lui
anche a farsi esperta in umanità, a collegare i
desideri assopiti nel fondo di ognuno e a cercare
quei "punti di rottura" che possono lasciar passare
la grazia, perché è lì che già sta lavorando il
Signore. Ci direbbe che per questa missione è meglio
mettere da parte le "individualità-realizzate-professionalmente
e indaffarate-in-impegni-spiritualmente-inoffensivi"
, perché solo i "cercatori di pozzi", capaci di
avvicinarsi e "toccare", di perdere tempo e andare
al di là delle apparenze, possono aiutare altri ad
illuminare la sorgente che è in loro.
Cercherebbe di convincerci dell’importanza di
accompagnarci e sostenerci nella fede gli uni gli
altri, imparando a rileggere insieme la vita e a
fare in modo che ciascuno possa condividere l’acqua
della propria esperienza; probabilmente
manifesterebbe la sua curiosità e ci chiederebbe
dove incanaliamo l’acqua del nostro torrente
affettivo e se i voti danno alle nostre energie
profonde l’orientamento apostolico che hanno avuto
nell’esistenza di Gesù . E magari arriverebbe
persino a chiederci i nomi dei nostri mariti, di
quelle realtà con le quali scendiamo a patti e che
ci allontanano dal nostro Centro:
- il marito della "stupidità disinformata e
conformista" che ci fa credere che la situazione del
mondo non ha rimedio ("sono le leggi dell’economia
di mercato...", "è il prezzo da pagare per il
progresso tecnologico...") e che la cosa più sensata
che possiamo fare è adattarci a quello che c’è.
- il "marito neoliberista e consumista" che ci
trascina verso un modo ingannevole di essere "come
il resto del mondo", ci crea sempre crescenti
necessità di confort e fa sì che ci sembri normale
trovarci in un comodo centro, lontani da ogni
rischio e mascherando da "prudenza" la resistenza a
tutto ciò che minaccia di scomodarci . A forza di
vivere così, la "scintilla di pazzia" che ha spinto
le nostre vite verso la sequela di Gesù si spegne,
il nostro sguardo si intorbida e i luoghi dei poveri
che siamo chiamati a frequentare, finiscono per
esserci invisibili.
- il "marito individualista" che ci offusca le fonti
dell’alterità, ci seduce con la facilità di una vita
volgare e distratta in cui il dolore degli altri,
l’importanza della presenza di Dio o il ricordo
pericoloso del suo Vangelo non ci raggiungono.
- il "marito pseudo-terapeuta" che impone lo
psicologismo come spiegazione ultima di ogni cosa,
sospetta sempre dei nostri desideri, nega
sistematicamente una loro origine trascendente e ci
pone su un piano di positivismo ermetico: tutto ha
una sua ragione nella nostra psiche, il resto sono
proiezioni illusorie. E così nega la possibilità che
la nostra libertà tenda oltre noi stessi.
- il "marito secolarista" che ci allontana dal
pozzo, dall’incontro profondo con il Signore e
dall’esperienza mistica, ci fa vivere solamente a
partire da imperativi etici, "secolarizza" il nostro
cuore e ci rende incapaci di esprimere l’esperienza
spirituale. Da ciò nasce quel non saper trovare le
parole per esprimere il sublime, quella paura
dinanzi al mistero e al simbolo, quelle liturgie
fossilizzate e quell’attivismo apostolico in cui non
c’è tempo né spazio per una preghiera sostanziosa,
silenziosa, "oziosa" e costante .
- il "marito spiritualista" che ci spinge a
continuare ad alzare santuari e a scappare verso i
monti di nuove sacralizzazioni e restaurazionismi
con i tratti di un new age vaporoso, senza alcuna
relazione con le cose tangibili della vita reale e
quotidiana.
- il "marito idolatra" che ci fa rendere culto ai
mezzi e agli strumenti, alle istituzioni, ai riti e
alle leggi, rendendo sempre più difficile
quell’adorazione che il Padre cerca da noi e che non
ha niente a che vedere con il "ritorno" al
religioso.
- il "marito delle mille occupazioni" che si
nasconde dietro la vecchia dinamica di cercare una
giustificazione per le opere, ci configura come
datori più che ricevitori e trasforma i nostri
fallimenti apostolici o la vecchiaia in veri e
propri traumi, perché in quei momenti il lavoro
perde la sua pretesa di assoluto .
La Samaritana, però, che è stata liberata da tutte
le sue idolatrie, ci direbbe soprattutto:
"- Siate pazienti con la lentezza dei vostri
processi, nel rompere con questi mariti, siate
sicuri che in ciascuna delle vostre vite esiste un
pozzo e il Maestro vi sta aspettando seduto sul suo
bordo. Confidate nel suo potere di seduzione, nella
sua pazienza nell’abbattere le vostre difese, nel
suo desiderio di portarvi fino al profondo della
vostra vita, alle sue sorgenti interiori e segrete,
perché Lui sa accompagnare questa discesa senza
impazienza né fretta. Quando io l’ho sentito dire
due volte: “l’acqua che io voglio dare”, ho capito
che era abitato dal desiderio violento di annegarci
tutti nella sua corrente.
Non accontentatevi solamente di quello che già
sapete di Lui: percorrete il viaggio nell’intimità
al quale avete tra l’altro la fortuna di essere
invitati. All’inizio io non ho visto in Lui altro
che un giudeo, ma pian piano mi ha guidata fino a
fare in modo che lo scoprissi come il Signore,
Profeta e Messia, come Colui che da sempre stavo
aspettando senza saperlo. Abbiate il coraggio di
chiamarlo con nomi nuovi, con quelli che non
appariranno mai nei manuali inariditi delle vostre
librerie.
Non abbiate paura di riconoscere la sete che è in
voi, e non ingannatevi credendo che la vostra
condizione di consacrati vi esime dalla precarietà e
dalla vulnerabilità che caratterizzano ogni essere
umano: cambiate il vostro atteggiamento di perpetui
"donatori" e sentitevi viandanti con coloro che
camminano e cercatori con coloro che cercano. Solo
allora, infatti, vivrete la gioiosa sorpresa di
essere evangelizzati da coloro ai quali volete
annunciare il Vangelo. Imparate ad ascoltare meglio
e, invece di predicare e dirigere tanto, fatevi
esperti nel domandare, dialogare e condividere con
altri quella povertà che ci rende tutti uguali.
Infatti, solo se sperimenterete la vostra sete
potrete entrare nel gioco che io ho imparato accanto
al pozzo: l’uomo assetato che mi ha chiesto
dell’acqua è risultato essere colui che ha placato
la mia sete e ciò mi ha convinto dopo a parlare di
lui alla mia gente. Proprio perché sapevo di avere
bisogno della salvezza, ho potuto annunciare ad
altri che avevo incontrato qualcuno che mi aveva
accolto senza giudicarmi né condannarmi. Venite a
festeggiare con me vicino al pozzo che la propria
povertà, riconosciuta e messa in relazione con Gesù,
non è un ostacolo a ricevere il dono dell’acqua
viva, ma la migliore occasione per accoglierla e
lasciarla scorrere per la Vita eterna.
Tuttavia, vi avverto, state pronti: Egli può
aspettarvi in qualunque posto, in qualunque
mezzogiorno della vostra vita quotidiana, proprio
quando eravate avvolti in piccole preoccupazioni, in
litigi reciproci o in vecchie ortodossie su titoli o
privilegi. Se vi fermate ad ascoltarlo, siete persi
per sempre: Egli al principio vi chiederà qualcosa
di semplice (“dammi da bere”, “va’ a chiamare tuo
marito”)..., ma alla fine, tornerete a casa vostra
senza acqua, senza brocca e con la sete, prima
sconosciuta, di attirare a Lui la città intera.
Accogliete la notizia sorprendente che è il Padre
che vi cerca e desidera la risposta della vostra
adorazione. Non abbiate paura di quella parola, così
strana alle orecchie del mondo, perché è "l’altra
terra" alla quale, come Abramo, siete stati
chiamati. Lasciate dietro di voi i vecchi terreni
che vi sostenevano e inoltratevi in questa passione
per il Signore e per il suo Regno, in cui, come
desiderava Benedetto da Norcia, nulla si antepone al
suo amore; e diventa una forma di esistenza ciò che
proclamava il salmista: “La tua grazia vale più
della vita!" (Sal 63,4).
5. Presi per mano dal Samaritano
Se il Samaritano ci prendesse per mano, cosa ci
direbbe e verso dove ci porterebbe?
Più che ascoltarlo (sembra un uomo di poche parole),
prendiamoci del tempo per contemplare la scena
descritta da Gesù, ricordando che un’icona non è il
riflesso di ciò che viviamo e siamo, ma ci manifesta
l’Altro, ciò che ancora non siamo, la distanza che
ci separa dalla conversione e che dobbiamo
percorrere e ci mette di fronte allo sguardo che ci
penetra dentro e ci permette di accedere al vero
volto del prossimo.
Questa icona non svelerà forse anche ciò che era nel
cuore di Gesù, colui che ha inventato la sua storia
e che, senza volerlo, "ha dipinto" in essa alcuni
dei suoi stessi tratti? Non è forse la sua opera
maestra, il quadro per il quale avrebbe potuto
passare alla storia ed essere ricordato, se non
fosse che ha già altri motivi per esserlo?
Iniziamo col guardare la scena, come se fossimo lì
presenti:
In primo luogo, ci sorprende il realismo lucido
dell’autore che non risparmia le tinte scure: un
assalto di briganti, un uomo spogliato, percosso e
lasciato mezzo morto e due passanti "qualificati"
che passano oltre (ed è inevitabile ricordare il
brigantaggio del nostro mondo, le sue vittime
dimenticate sul ciglio dell’esclusione,
dell’indifferenza di coloro che passano o di noi che
passiamo, indaffarati con le nostre cose...)
E quando la storia si ostinava a farci credere che
il male rappresenta l’ultima parola delle cose e che
la situazione è fatalmente irrimediabile, il
narratore fa emergere un’altra figura all’orizzonte,
preceduta da un piccolo segno grammaticale che ci
lascia in sospeso: "invece un samaritano...". Da
dove viene e cosa intende sottolineare il
"contrasto" introdotto da quell’"invece"? Ci
chiediamo: quale forza di opposizione può
rappresentare in mezzo a un mondo che non sembra
emettere altri segnali se non quelli della frenesia
possessiva, l’ossessione per la propria cura e
un’incoscienza soddisfatta, mentre popoli interi
crollano in silenzio? Quel piccolo "invece" non ci
sta forse dicendo qualcosa di come guarda Gesù la
storia e della sua ostinata speranza che vede
emergere in essa una potente, anche se in apparenza
debole, forza di resistenza?
In mezzo a tanti segni di morte, il Samaritano che
entra in scena non sembra possedere, infatti, molte
risorse, non appartiene a nessun centro di potere
che lo sostenga e gli garantisca prestigio o
influenza; è straniero, viaggia solo e non dispone
di altro se non della sua bisaccia e della sua
sella, ma volge lo sguardo al luogo dell’agguato e,
lì, il suo cuore vibra al ritmo dell’Altro.
Allora compie il gesto minimo ed immenso di
avvicinarsi all’uomo caduto. Quando altri lo hanno
schivato, senza che il lasciarselo dietro li
intaccasse, egli si sente colpito da quell’uomo
ferito e responsabile del suo abbandono. L’urgenza
di tendere la mano a chi ne ha bisogno gli fa
posporre tutti i suoi progetti e interrompere il suo
viaggio. La preoccupazione per la vita in pericolo
dell’altro ha la meglio sui suoi piani e fa emergere
il meglio della sua umanità: un io sbarazzatosi di
se stesso. È uno straniero che nessun legame di
parentela né di solidarietà etnica obbligava a
prendersi cura dell’altro, ma che si è fermato a
soccorrerlo; è un viaggiatore che è sceso da
cavallo, ha cambiato il suo programma e si è
inginocchiato accanto all’altro uomo; è uno
scismatico che, tuttavia, si è comportato come il
guardiano di suo fratello e nel comandamento: "Non
uccidere" ha letto: "Farai qualunque cosa perché
l’altro viva".
E se in quel gesto di pura alterità si celasse il
segreto della nostra identità più profonda ed egli
ci stesse mostrando dove porta l’adorazione alla
quale ci invitava la Samaritana? : essere in mezzo
al mondo un segno che risponde all’aumento
dell’avere, un segno così povero come quello della
mangiatoia o della tomba vuota, una presenza che
afferma il valore e la dignità dei più piccoli ; una
minuscola pietrolina di inciampo nel campo della
logica neoliberista, sognatori con i piedi per
terra, impegnati a mantenere un rapporto fiducioso e
non rassegnato con la realtà, capaci di scoprire
possibili occasioni di trasformazione e di
immaginare l’"altro mondo possibile". Anche ai tempi
del Samaritano esisteva, come oggi, una logica
dominante: "Se ti fermi a prenderti cura di uno
sconosciuto mezzo morto, ti esponi a perdere i tuoi
piani, la tua tranquillità, il tuo tempo, il tuo
olio, il tuo vino e i tuoi soldi". Tuttavia, nella
sua reazione si rivela l’ostinata logica di Gesù:
"Non misurare, non calcolare, lascia che l’amore ti
espropri: saranno gli altri a restituirti la tua
identità, proprio quando avevi la sensazione che
stavi perdendo la tua vita" .
Ci fermiamo a contemplare l’uomo mezzo morto. Colui
che occupa il centro del quadro ci fa pensare che
per Gesù era naturale guardare le cose dal basso,
con gli occhi di coloro che vivono o sopravvivono
nelle peggiori situazioni. Colui che nacque in
aperta campagna, nella periferia di Betlemme e
morirà fuori dalle mura di Gerusalemme, "si sposta"
e monta la sua tenda là dove nessuno lo aspetta: tra
i diseredati, i poveri e gli esclusi, proprio là
dove sembrava abolita ogni speranza. Lo incontreremo
sempre fuori, con quelli che il mondo ha gettato
lontano da sé .
"Si prese cura di lui", leggiamo nel testo. "Abbi
cura di lui", dirà poi all’albergatore. Si tratta di
un verbo "femminile", lento, carezzevole, che entra
in confronto con la nostra fretta e la nostra
impazienza di ottenere risultati immediati. Questa
dimensione umana del “prendersi cura” può impregnare
del suo calore i nostri rapporti comunitari, far
crollare le nostre difese, far sì che si sbricioli
quella durezza che può rendere triste il nostro
celibato e permetterci di spargere cordialità ed
inventare gesti di tenerezza.
Contempliamo di nuovo l’uomo "mezzo morto", senza
fuggire la domanda che a volte ci assale e cioè se
non sarà a volte la stessa Vita Religiosa
responsabile del fatto che alcuni suoi membri siano
"mezzi-morti". La sincerità, infatti, ci obbliga a
riconoscere l’esistenza di vite "a metà" che non
sembrano fiere né felici, subordinate al
funzionamento delle istituzioni, asfissiate
dall’inerzia di un ordine inamovibile e da
tradizioni indiscutibili, vuote dentro, con lo
spirito d’iniziativa e la spontaneità soffocati,
raramente invitate a pensare da sole, ad esprimere
liberamente le proprie opinioni, il proprio
disaccordo, i propri desideri o i propri sogni.
Certamente, bisognerebbe definire "Non-vita-non-religiosa"
quella che fa nascere nel suo seno sterile simili
"soggetti necrotizzati", quando coloro che sono
giunti ad essa lo hanno fatto perché in cerca della
vita in abbondanza promessa dal Vivente.
Continuiamo a guardare l’uomo mezzo morto confortati
dalla certezza che qualcuno si metterà dalla parte
della metà viva della sua persona e sceglierà la
vita in nome suo. Ci rendiamo conto allora con
stupore che è proprio lui, con la sua impotenza, che
ha il potere di rivelare al Samaritano la sua
capacità di compassione che lo rende simile a Dio.
E se fosse proprio quella parte di noi e delle
nostre istituzioni, che sentiamo "mezza morta" ad
avere la missione di farci scoprire dimensioni della
nostra esistenza che sconoscevamo? E se fossero le
situazioni di crescente fragilità, crisi e perdita,
le "messaggere" incaricate di annunciarci una novità
che giunge alle nostre vite? Non le avremmo mai
scelte tali situazioni, anzi, continuiamo a
rimpiangere di non essere tanti, forti, giovani e
influenti, e in molti casi ci troviamo nella
situazione opposta e la nostra resistenza
all’impoverimento si sta trasformando in una fonte
di depressione spirituale corporativa che blocca i
nostri progetti e ci impedisce di vivere felici e di
essere creativi. La nostra speranza rispetto al
futuro di Dio nella Vita Religiosa è "mezza morta" e
siamo scesi a patti con una “eresia emozionale” che
in questo momento è molto più pericolosa di
qualsiasi altra eresia: Dio non potrebbe più fare
nulla in questo mondo, in questa Chiesa, in questo
Corpo apostolico. Non ci sarebbe ormai da aspettarsi
nessuna novità da Lui. Non lo diciamo in questi
termini, ma lo sentiamo, e questo sentimento in modo
sottile ci entra dentro, e porta via il conforto e
la speranza. Ora, quando entra in crisi la speranza,
iniziano ad agonizzare l’amore e la fede .
Non abbiamo forse bisogno che il gran Samaritano che
è Gesù ci si faccia vicino, curi le nostre ferite e
versi su di esse l’olio della sua consolazione ed il
vino della sua forza? Non è forse dinanzi a noi il
kairós di scoprire nella nostra fragilità “una via
nuova” nella quale la forza si manifesta nella
debolezza e la vita nella morte? Non è forse giunta
l’ora di fidarci perdutamente del Dio che sta
facendo qualcosa di nuovo con la nostra povertà e
persino con la nostra perdita, e di accettare di
essere nella Chiesa "portatori del marchio di Gesù"
, una realtà debole, sempre fragile e mai finita?
Se non ci decidiamo a vivere fino in fondo le morti
alle quali siamo portati, se non riusciamo a
"gustarle", non saremo capaci di lasciare affiorare
la vita che chiede di nascere attraverso di esse: un
invito a centrarci attorno all’essenziale, un modo
diverso di relazionarci, di sostenerci tra una
congregazione e l’altra, di lasciare spazio ai
laici, di imparare meglio la reciprocità e la
collaborazione.
Possiamo immaginare cosa accadrebbe in una
Congregazione (iniziamo ad avere preziosi esempi di
ciò) che abbandonasse ogni ansia di controllare il
suo futuro e lasciasse nelle mani di Dio la perla
preziosa del suo carisma? Non per disinteressarsi di
esso e rinunciare a continuare a proporlo ad altri,
ma per farlo spinti dalla ricerca del Regno e non
per assicurarsi ad ogni costo la propria
sopravvivenza. Siamo capaci di sognare nella
liberazione di energie che questa fiducia porterebbe
con sé e nella novità che implicherebbe smettere di
colpevolizzarci o di affliggerci di fronte al calo e
alla precarietà? Perché allora questi ultimi ci
mostrerebbero il loro volto luminoso e si
rivelerebbero, non come una disgrazia o come un
dramma, ma come un’occasione, al tempo stesso
dolorosa e ricca di possibilità, di fidarci di
quella sapienza del Vangelo che parla di perdere e
lasciare .
Non ci troviamo forse oggi nella migliore delle
occasioni per vivere tutto questo a pieni polmoni?
Una conseguenza immediata sarebbe che, nei luoghi in
cui sperimentiamo l’invecchiamento della Vita
Religiosa, ci aiuteremmo gli uni gli altri ad
allargare il nostro sguardo e la nostra mente e
giungeremmo a rallegrarci del fatto che altre
Congregazioni, in altri Paesi, vivano momenti di
crescita ed espansione. Questa "consolazione
vicaria", questo gesto di gratuità e di generosità
sarebbe presente certamente nella migliore
tradizione dei nostri fondatori e costituirebbe uno
di quei segni di novità che stiamo cercando:
abbandonare la ristrettezza delle nostre mire e
lasciar battere il nostro cuore al ritmo
dell’universalità della Chiesa!
È difficile reagire a partire da questa fede?
Certamente. Quando ci siamo decisi a seguire con
radicalità Gesù Cristo, ci hanno forse garantito che
il futuro sarebbe stato facile per noi?
Arriviamo infine alla locanda. Il luogo risulta
caratterizzato ancora una volta dalla cura, ma
adesso tutto accade all’"interno" di una casa, di
alcune mura (di un’istituzione, pensiamo noi).
Come fare in modo che le strutture che abbiamo
creato siano "locande" al servizio della vita, spazi
in cui ci sentiamo accolti, che ci offrano stabilità
e permanenza e ci facciano riprendere per poter
tornare sulle nostre strade? Come fare per non
dimenticarci che la loro ragione di esistere è
generare (un altro verbo al femminile) "appartenenze
coesive" e facilitare strutture e luoghi di
incontro? Come mantenere la memoria di ciò per cui
sono nate, quando il vortice creativo dei fondatori
le inventava flessibili, con immaginazione, perché
non rimanessero ancorate a punti fissi, ma
restassero aperte a sogni mutevoli?
Dentro la locanda, non importa se stiamo in "prima
linea", o se ci occupiamo di fare i sandali perché
altri possano camminare incontro a coloro che hanno
bisogno di noi o a torchiare le olive e pestare
l’uva che da versare sulle loro ferite. Alcuni
dovranno occuparsi di denunciare i briganti che
aggrediscono i deboli, di creare "reti samaritane di
comunicazione" che sveglino le coscienze,
protestino, entrino in contatto con altri "compagni
di dissidenza" che in giro per il vasto mondo stanno
già lottando contro il fatalismo economico,
inventando altri modelli di economia solidale ed
usando tutte le loro potenzialità e risorse per
creare un ordine umano in cui sia possibile
l’esistenza di tutti . Altri sentiranno l’urgenza di
dedicarsi alla cura di questo pianeta "mezzo morto"
e a difenderlo dai sui depredatori. Alcuni
offriranno il loro tempo ed il loro ascolto ai
giovani e ai cercatori di senso che bussano alle
nostre porte e, mentre alcuni sentiranno la chiamata
ad entrare in dialogo con le altre religioni, altri
annunceranno dai tetti il nome di Gesù.
La missione della nostra locanda non è solo
conservare la memoria della nostra eredità e
rafforzare i nostri legami, ma, più di ogni altra
cosa, far sì che risuoni in noi la causa
dell’umanità, come causa di Dio e ottenere che ci
sentiamo un corpo unito e ben collegato, al servizio
di un mondo ferito.
6. Presi per mano dallo Scriba
Se lo Scriba ci prendesse per mano, cosa ci direbbe
e verso dove ci porterebbe?
Forse ci darebbe appuntamento nel suo studio,
accanto alla sua scrivania, piena di vecchi rotoli
manoscritti e commenti alla Torah e ci racconterebbe
come si è abituato da bambino ad osservare in modo
scrupoloso la Legge e a non violare deliberatamente
nemmeno una sola delle sue prescrizioni. La sua
preoccupazione costante era quella di sapere come
poter vivere una vita "eterna", vale a dire, "vera",
oltre i limiti del tempo, della fragilità e della
caducità delle relazioni, una vita piena, profonda,
traboccante... Pur di trovarla aveva consacrato la
sua esistenza a leggere e a studiare, per questo si
riuniva con altri Scribi per discutere con loro e
depositava poi le sue scoperte su pergamene che
conservava gelosamente.
Maestro del sapere, con influenza e prestigio, aveva
trascorso i migliori anni della sua gioventù
scrutando le Scritture, ma gli insegnamenti che era
giunto a dominare si erano trasformati per lui in un
peso opprimente che lo soffocava e lo bloccava in
una rete tessuta con fili di complicate
argomentazioni e sottili disquisizioni.
Gli avevano parlato di un galileo itinerante seguito
da un gruppo di discepoli, che lasciava dietro di sé
un’impronta di gioia e libertà. Si decise a
rivolgersi a lui: forse esisteva qualche testo della
Torah a lui sconosciuto, ma commentato da studiosi
di qualche sinagoga della Galilea che poteva far
crescere la sua conoscenza sulla vita vera. Con un
miscuglio di curiosità e di arroganza ("da Nazaret
può mai venire qualcosa di buono?") gli pose la sua
domanda e constatò con delusione che Gesù lo
rinviava alla risposta già conosciuta della legge.
Citò il testo dello Shema con il tono pacato di chi
lo ha ripetuto mille volte e lo conosce a memoria:
"Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore,...e il prossimo tuo come te stesso".
Tuttavia, irritato in seguito per l’immagine di
semplicità che stava dando, decise di mettere alla
prova le conoscenze del galileo e gli chiese: "E chi
è il mio prossimo?
" – E allora è arrivato il sussulto", ci ha
confessato. Invece di continuare a muoversi nei
codici che mi erano familiari, quello strano maestro
iniziò a raccontarmi una storia sorprendente che non
aveva nulla a che vedere con quello che io avevo
imparato. In essa tutto si capovolgeva: le figure
che io rispettavo e ammiravo, il sacerdote ed il
levita, venivano screditate; il nome di Dio non
veniva pronunciato in nessun momento e l’unica
allusione lontana alla sua Legge (la proibizione di
toccare un cadavere), era apertamente violata. È
stato però soprattutto il finale a risultarmi
definitivamente intollerabile: mi proponeva come
modello di comportamento e di apprendimento per
farmi prossimo un eretico samaritano scismatico.
Ho cercato di scappare, ma la mano di quello
sconosciuto aveva afferrato la mia e mi aveva
portato allo scoperto, fino a lasciarmi ad un
incrocio, nel quale adesso mi trovo: mi invita a
lasciare alle mie spalle tutte le vie già
frequentate e ad avventurarmi per una via
assolutamente sconosciuta e piena di incognite. Non
esige da me che rinunci all’eredità ricevuta, ma che
crei, a partire da quella, qualcosa di nuovo, di
inedito.
I miei vecchi saperi e le mie sicurezze iniziano a
sembrarmi inutili e sono colto dalle vertigini. Sono
preoccupato perché, senza volere, confronto il
personaggio del Samaritano con le figure del
sacerdote e del levita, simboli dei comportamenti
che per anni hanno nutrito le mie convinzioni e mi
rendo conto con stupore che stanno iniziando a
cambiare significato per me: le loro vite mi
sembrano obsolete e sterili, si esprimono in una
lingua morta che non parla più, li vedo vittime di
costumi morti e freddi, adeguati a giudizi e
convenzionalismi esterni, mercanti di un discorso
vuoto, professionisti atei del discorso su Dio. Ho
capito perché nel racconto di Gesù, sono passati
oltre dinanzi all’uomo mezzo morto: il loro cuore
era atrofizzato e insensibile, incapace di reagire
di fronte all’inaspettato e liberarsi da meccanismi
abituali e di routine. Conoscevano a memoria, come
me, il comandamento di amare il prossimo, ma la loro
testa non era collegata al loro cuore e sono fuggiti
dal prossimo reale che li sfidava con la sua
concretezza .
Va crescendo in me lentamente l’intuizione che la
vita che sto cercando non è legata a leggi, tempi,
riti, edifici o costumi, ma a quella parola nella
quale Gesù ha messo tutta la forza del suo racconto:
la compassione. L’imperativo che mi ha rivolto,
"anche tu fa’ lo stesso" gravita su di me e mi
dibatto tra il tornare al mondo già conosciuto delle
mie certezze tratte dai libri, e l’entrare in
contatto con esseri umani in carne ed ossa e
scoprire che è vicino alla gente più distrutta che
si impara la vita eterna".
E se avessimo il coraggio di riconoscerci, come in
uno specchio, nel personaggio dello Scriba? E se le
sue parole dessero un nome alla nostra abitudine di
rifugiarci nel mondo asettico delle teorie, nella
soddisfazione delle dichiarazioni categoriche, nella
tranquillità di una vita ordinata, adempiente e
intorpidita, nella protezione di orari immutabili e
di mura a volte invisibili, al sicuro dal rumore
della vita che passa lontano da noi e dalle lagrime,
le grida, le risa o le speranze di coloro che vivono
e muoiono nelle periferie del nostro mondo?
Come evitare che l’avventura che un giorno abbiamo
intrapreso, nata da un innamoramento appassionato
per il Signore e il suo Regno, possa deviare verso
una tiepida moderazione e si trasformi in un noioso
adempimento di normative e costumi?
Stiamo sperimentando la frustrazione di non aver
azzeccato del tutto con la ricerca della vita piena
e traboccante nella quale abbiamo voluto impegnare
la nostra vita: ci sentiamo stanchi di parole senza
significato e affamati di vedere, toccare e sentire;
abbiamo raggiunto un punto di saturazione in quanto
a dichiarazioni, documenti e teorie sul carattere
specifico della nostra identità, quando la cosa
importante non è ciò che proclamiamo, ma quel che
viviamo. Non staremo forse sprecando le nostre
energie per conservare e trattenere una figura di
Vita Religiosa e delle forme storiche che sono nate
criticabili e provvisorie ? Non è forse arrivato il
momento di smettere di ripetere quel che facevamo
prima, e di aprirci a ciò che ci sta dinanzi, alla
novità che lo Spirito sta creando?
Probabilmente abbiamo bisogno dei consigli dello
Scriba:
"- Abbandonate il vostro mondo di realtà virtuali,
come io scuoto la polvere dei miei legacci;
spegnete, seppur momentaneamente, i computer in cui
conservate gelosamente organigrammi, regolamenti,
progetti sociali o piani pastorali ed uscite per le
strade e nelle piazze ad ascoltare il rumore della
gente reale e ad allargare le vostre superfici di
contatto con loro. Non evitate le strade pericolose,
perché la novità emerge sempre fuori dai luoghi
sicuri, protetti e convenzionali.
Apritevi ad una spiritualità dell’intemperie e a
sopportare la perplessità senza mettervi sulla
difensiva, correte il rischio di disimparare molte
vecchie pratiche e riprendete la pratica silenziosa
dell’amore concreto, perché sarà esso, e non la sua
monotona proclamazione, a far risplendere la vostra
vita. Mettete più interesse nello scoprire necessità
che nel conservare strumenti, nell’inventare
risposte più che nel ripetere formule, portatevi a
casa le questioni fondamentali che la gente si porta
dentro: la vita, la morte, l’amore, la verità, la
pace, il futuro della terra. Non impegnatevi nel
continuare ad offrire risposte preconfezionate che
ormai sono superate, né lasciatevi paralizzare dallo
scoraggiamento: "proprio perché le cose si sono
aggravate tanto, è permessa la speranza" .
Non lamentatevi dell’insufficienza dei vostri sforzi
per “trasfigurare” la vostra vita: neanch’io sono
riuscito a raggiungere da solo la vita che cercavo;
rallegratevi se siete rimasti senza parole
significative per definire la vostra identità: il
Samaritano non ha avuto bisogno di pronunciarne
nessuna parola per avvicinarsi all’uomo ferito e
prendersi cura di lui. Semplicemente lo ha fatto.
Non cercate di scappare quando la vita vi fa vivere
situazioni di destabilizzazione e di crisi, di
strappo e di rottura e rimangono in sospeso i
privilegi teologici che vi sostenevano, perché solo
quando rinuncerete a definirvi per comparazione con
gli altri emergerà la parte più autentica che è in
voi.
La vita che avete abbracciato non è un modello
etico, né un racconto fondatore, ma una passione,
un’avventura, un rischio, un itinerario da
percorrere con gli occhi e con le orecchie aperte e
in cui l’unica bussola che guida alla meta è quella
della misericordia e della tenerezza.
Lasciate che l’imperativo: "Va’ e anche tu fa’ lo
stesso" vi scuoti, come ha scosso me. Dinanzi a voi
sono aperte le grande vie dell’adorazione e della
compassione che sfociano nella "vita eterna" . Beati
voi, se sceglierete di percorrerle.
***
Presi per mano dal Primo Vasaio
Come nel capitello di Nazaret, Qualcuno afferra oggi
la nostra mano per farci proseguire nella sua
sequela e fare di noi suoi discepoli e discepole,
appassionati di Lui e del suo mondo.
Viene a noi con lo slancio della sorgente che
zampilla per la Vita eterna e vuole trascinarci
verso quella adorazione che cerca in noi il Padre,
finché tutta la nostra vita sia esposta al suo amore
e la priorità del suo Regno relativizzi tutto il
resto.
Si avvicina ad ognuno di noi per guarire le nostre
ferite e farsi carico dei nostri limiti, ci invita a
recarci con Lui nei luoghi dove la vita è più in
pericolo e a confidare nella forza segreta della
compassione e dell’ostinata speranza. Lui, infatti,
che nel chicco di grano seppellito sotto terra
contempla già la spiga e ascolta il pianto del bimbo
che nasce quando ancora la donna grida per i dolori
del parto (Gv 16,21), ci rivela le possibilità di
vita che si nascondono là dove sembra che la morte
abbia detto l’ultima parola.
Egli è il Datore dell’acqua viva, il Samaritano che
guarisce le nostre ferite, il Vincitore della morte,
il Vasaio della nuova creazione.