LA SANTITÀ – UN FENOMENO DI FAMIGLIA

Il 21 ottobre 2001, Giovanni Paolo II, a Roma, beatificò una coppia di sposi, la prima nella storia della Chiesa: Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi. Nell’omelia durante la S. Messa di beatificazione, il Santo Padre affermò: “hanno vissuto una vita ordinaria in modo straordinario” – una vita di fede e di amore di Dio, di amore reciproco e di amore del prossimo, in modo particolare dei loro figli. In questo caso i genitori si dimostrarono i migliori e i più efficaci missionari dei loro figli. Furono proprio loro a trasmettere ad essi la fede e l’amore, prima di tutto con l’esempio di una vita autenticamente cristiana. Li educarono non soltanto alla vita cristiana, ma anche a un certo radicalismo della fede, dato che due figli scelsero il sacerdozio e una delle figlie – la vita religiosa. I figli concelebrarono la S. Messa di beatificazione, presieduta dal Santo Padre.

La beatificazione dei due coniugi divenne l’occasione per ricordare in una luce nuova il ruolo insostituibile della famiglia nella vita del singolo e della società. L’aver attirato l’attenzione sul ruolo della famiglia in un corretto sviluppo della persona umana è particolarmente importante ora, poiché la vita familiare sta vivendo una crisi profonda. La divisione della famiglia, il mettere in dubbio il fatto che essa sia un’insostituibile cellula della vita sociale, proposte di altri tipi di contatti e di unioni interpersonali, che dovrebbero sostituire la famiglia, allargano sempre più il loro campo d’azione. Nel suo insegnamento, Giovanni Paolo II illustra sotto ogni aspetto la dottrina della Chiesa riguardante il carattere della vita familiare e il posto della famiglia nella vita sociale. La famiglia è l’ambiente, il primo, il più importante e insostituibile, in cui l’uomo viene al mondo e si sviluppa. Il futuro dell’umanità, il futuro della persona umana, la sua capacità di dare la vita biologica e quella spirituale, il completo sviluppo culturale e religioso di generazioni umane sempre nuove, dipendono in massimo grado dalla famiglia. In essa, prima di tutto si pongono le basi della fede e dell’amore di Dio e dell’uomo, e dunque nella famiglia si gettano le fondamenta della civiltà dell’amore.

Il Santo Padre ritiene che nella Chiesa sia giunta l’”ora della famiglia”, nella quale si manifesta, con tutta la drammaticità e l’ovvietà, il suo insostituibile “carattere missionario”, cioè si desta la convinzione, che la famiglia è il primo e il più importante ambiente di una corretta e duratura trasmissione della fede e della formazione della condotta morale, e dunque della formazione di una piena umanità dell’uomo[1].

La beatificazione dei coniugi Quattrocchi e il ricordare il ruolo della famiglia nell’educazione dei figli, richiama alla mente numerose altre stupende famiglie, che hanno realizzato in grado eccezionale questo fondamentale ruolo missionario verso i loro figli. Vanno menzionati per esempio i genitori di Santa Teresa di Gesù Bambino, e in Polonia, la famiglia del Santo Padre oppure quella di Antonio e Giuseppina Ledóchowski, nel seno della quale vennero al mondo e crebbero dei bravi Polacchi ed eroici cristiani – semplicemente dei santi[2]. Due delle figlie sono già state annoverate dalla Chiesa nell’albo dei beati, e cioè:

Due figli dei Ledóchowski morirono in concetto di santità:

I figli dei Ledóchowski rimasti laici, condussero una vita cristiana esemplare nella vita familiare. La trasmissione della fede e l’esempio dell’amore portarono anche nelle loro famiglie frutti di vocazioni alla vita consacrata. Due figlie del generale Ignazio Ledóchowski si consacrarono nell’ordine delle orsoline: l’una  in quello dell’Unione Romana, e l’altra nella Congregazione del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante. Anche la figlia di Francesca entrò nella Congregazione delle Orsoline SCGA.

Tre figli e tre nipoti di Antonio e Giuseppina Ledóchowski scelsero dunque la vita consacrata. Non si potrebbe chiamare questo fatto un fenomeno della santità familiare? Sorge dunque l’interrogativo: grazie a che cosa e in quale modo i Ledóchowski crearono un ambiente familiare in cui i valori cristiani erano trasmessi ai figli e ai nipoti e da questi furono non solo accettati e riconosciuti, ma divennero il motivo per tendere alla santità eroica?

1.      La trasmissione della fede da parte della famiglia e l’esempio dell’amore

Guardando la storia delle famiglia da cui provenivano sia Antonio che Giuseppina Ledóchowski, si nota facilmente un certo tipo di “eredità” – quello di trasmettere di generazione in generazione una fede profonda e un’alta cultura della vita cristiana. Le radici cristiane di entrambe le famiglie si estendono largamente e profondamente.

La famiglia Ledóchowski, apparsa nel XV secolo sulle pagine della nostra storia, era nota in Polonia per una profonda vita religiosa e per il generoso servizio della Patria e della Chiesa. L'amore di Dio e il generoso servizio alla Polonia erano per essa quasi degli obblighi naturali, trasmessi di generazione in generazione nel motto di famiglia: “Avorum respice mores” (“Osserva le usanze degli avi”). I Ledóchowski si distinguevano per la religiosità, per la cavalleria e per il patriottismo.

Antonio Ledóchowski (1823-1885), il padre di questi eccezionali figli e figlie, era figlio del generale Ignazio Ledóchowski, che durante l’insurrezione di novembre (1831) aveva difeso la fortezza di Modlin. Dopo il fallimento dell’insurrezione dovette emigrare con il figlio Antonio, allora in tenera età. Si stabilirono in Austria. Verso il termine della vita tornò in Polonia e trascorse gli ultimi anni, nel convento dei domenicani nel nativo Klimontów, preparandosi all’eternità. Il Card. Mieczysław Ledóchowski, l’eroico difensore della fede e dello spirito polacco durante il Kulturkampf, era suo cugino. 

Antonio compì gli studi in giurisprudenza a Monaco di Baviera, studiò anche  pittura sotto la guida di Wojciech Gerson. Era un uomo intelligente, riflessivo, di interessi universali. Possedeva una vasta cultura religiosa, che costantemente approfondiva. Partecipava attivamente alla vita della Chiesa, si distingueva per una viva religiosità, aveva una particolare devozione alla Madonna. Fu un fervente patriota, nonostante avesse soggiornato all’estero per molti anni.

Giuseppina Salis-Zizers (1831-1909), la madre, proveniva da un’antica stirpe cavalleresca svizzera Salis-Zizers i cui rappresentanti delle generazioni succedutesi si distinguevano per l’eroismo, il coraggio, e la fedeltà alla fede cattolica. Da questa stirpe proveniva  il vescovo di Ginevra, San Francesco di Sales (XVI-XVII secolo).

Il padre di Giuseppina, Rodolfo de Salis, dopo la morte della prima moglie, sposò la figlia del ministro russo, il barone von Bühler, una luterana che passò al cattolicesimo e come cattolica si distinse per lo zelo di un’autentica neofita. Nella famiglia regnava lo spirito di una viva religiosità. In questo clima profondamente cristiano veniva educata Giuseppina – una dei nove figli. Era una persona di grande forza di carattere e di vitale energia. Nel 1862 sposò un emigrato polacco, Antonio Ledóchowski; si stabilirono a Loosdorf, in Austria.

Entrambi, Antonio e Giuseppina, portarono nella vita di famiglia la più preziosa dote: una fede profonda e viva, forti principi morali, una buona indole, una cultura generale e religiosa ad alto livello. Si distinguevano per un profondo rispetto reciproco e un amore fedele. Potevano sempre contare sul vicendevole sostegno ed ebbero una linea comune nell’educazione dei nove figli, che ritenevano il loro più grande tesoro, e la loro educazione – il primo e il più sacro dovere.

In questa unione di persone provenienti da diverse nazioni, sorprende il fatto, che i figli venissero educati nello spirito polacco, nell’amore per la Polonia, amore che seppero confermare nella loro vita adulta con atti eroici. In grande misura ciò fu merito del padre, il quale benché si trovasse in una terra straniera, sentiva vivo il legame con il paese natale. Fu lui ad insegnare la lingua polacca ai figli, ad impartire loro lezioni di storia della Polonia, a far conoscere la storia dell’arte polacca. Fece conoscere anche la storia patriottica della propria famiglia. Giuseppina, pur essendo di origine svizzera, vissuta in Austria, appoggiava gli sforzi del marito nell’educare i figli come Polacchi. Era convinta che il matrimonio con un Polacco, il cognome polacco del marito e dei figli obbligava anche lei ad educarli nello spirito polacco. Il paese del marito divenne per lei la sua Patria per elezione, e a questa scelta rimase fedele per tutta la vita. La decisione di trasferirsi e di stabilirsi in Polonia fu dunque di comune accordo. Nel 1883 i Ledóchowski, insieme ai loro figli adolescenti, si trasferirono in Polonia. Acquistarono una piccola proprietà terriera a Lipnica Murowana, nei pressi di Bochnia. I ragazzi apprendevano con entusiasmo a vivere in Polonia, ed assimilavano la cultura della nazione. Giuseppina invece, non soltanto accettò il trasferimento della famiglia in Polonia, ma sin dall’inizio cercò di inserirsi attivamente nella vita dell’ambiente. Si prodigò per il bene della popolazione locale, portando un aiuto materiale e spirituale. Partecipò attivamente alla vita parrocchiale di Lipnica. Prima di morire supplicò i figli: “Non vendete Lipnica”. Lì morì e fu sepolta nella tomba di famiglia nella chiesa di San Leonardo.

I figli, dopo anni resero una magnifica testimonianza alla vita di Antonio e di Giuseppina, ai loro “metodi educativi” e al segreto del loro successo educativo.

“I nostri genitori – scrive una delle figlie – conducevano una vita veramente degna del nome di cattolici. Il loro rapporto reciproco era edificante ed esemplare. La mamma, la cui struttura spirituale era più forte di quella del babbo, con amore e pazienza addirittura eroica, lo incoraggiava quando cedeva troppo alla malinconia. (…) L’unica sua sollecitudine e l’unica sua aspirazione era vedere i suoi figli radicati nei principi della fede. «Allora – scriveva – potrò tranquillamente chiudere gli occhi» (…). I genitori osservavano i comandamenti di Dio e i precetti della Chiesa e ci abituavano a ciò sin dai primi anni. Ogni solennità di famiglia (onomastico, compleanno) veniva ricordata con la S. Messa celebrata per la festeggiata o per il festeggiato e con la santa Comunione (…). Venivamo introdotti nella liturgia della Chiesa (…). Ogni pasto era preceduto dalla preghiera. Ricordo anche, che alla voce della campana recitavamo l’«Angelus». La nostra educazione era seria, prudente, piuttosto severa, benché piena di bontà. Non ci erano permessi capricci a tavola. Sin dall’infanzia venivamo esercitati nel coraggio, era una vergogna essere troppo teneri per sé (…). La nostra casa aveva uno spirito autenticamente cattolico. La vita in essa era santa e bella. Il desiderio di nostra madre era di vederci tutti in cielo, ce lo ripeteva spesso (…). Ci influenzava il lodevole esempio dei genitori, la loro semplicità, la loro naturale pietà e tutto il modo di vivere, che spirava preghiera,  lavoro e sistematicità”[3].

L’immagine del padre e della madre si impresse profondamente nel ricordo dei figli. La figlia maggiore, Maria Teresa, ricorda che spesso, quando entrava nella camera di suo padre improvvisamente, lo trovava immerso nella preghiera, su un inginocchiatoio davanti all’immagine della Madonna di Częstochowa[4].

L’ultimo figlio, Ignazio, parla dei suoi genitori “con un profondissimo senso d’amore e di gratitudine”. “In nostro padre e in nostra madre avevamo costantemente il modello di una vita familiare edificante (…). Sin dall’infanzia venne infuso in noi un profondo spirito religioso tramite l’esempio dei nostri genitori, mediante l’amore e la mitezza”. Nostro padre “mostrava una commovente umiltà e sottomissione alla volontà di Dio, ed anche il desiderio, che i suoi due figli, Vladimiro e Ignazio, crescessero come bravi Polacchi”[5].

La più grande sollecitudine dei genitori era quella di infondere nei figli una profonda conoscenza religiosa e una fede viva, da pervadere tutte le manifestazioni della vita, inculcavano anche uno sconfinato abbandono in Dio. Erano non soltanto maestri, ma anche testimoni di una vita autenticamente cristiana, testimoni del Vangelo di Cristo. Adempirono in grado eroico al dovere di missionari verso i loro figli.

Benché entrambi i genitori avessero avuto la loro parte – e questa molto armoniosa - nel processo dell’educazione dei figli, tuttavia la salute cagionevole del padre e la sua morte prematura fecero sì, che in primo piano emergessero la figura e il ruolo della madre. Giuseppina del resto aveva una personalità molto ricca, univa armoniosamente una profonda fede in Dio, un’umile sottomissione alla sua volontà e una sconfinata fiducia in Lui, con realismo e con grande impegno nei problemi quotidiani della vita. La caratterizzava l’equilibrio interiore. Fu esempio di una persona immersa in Dio, e allo stesso tempo con i piedi saldamente a terra.

Prima di tutto fu una donna di fede, fede che si manifestava in ogni dettaglio della sua vita. Da questa scaturiva il suo amore per Dio, il totale abbandono alla sua volontà e la sottomissione ad essa. La pace, la forza dello spirito, la generosità, l’abnegazione, la modestia e la naturalezza, erano le sue caratteristiche. “Come Dio vuole” – fu il motto di tutta la sua vita”[6].

Era una donna di preghiera. Sono esplicite le testimonianze dei suoi figli, ormai adulti:

“La giornata di mia madre – scrisse Maria Teresa – iniziava con l’andare alla S. Messa. Ogni giorno vedevamo nostra madre che pregava con un libro di preghiere ormai un po’ consunto. E allora si trasmetteva a noi qualcosa di quella grandezza e della dignità della preghiera. Quando guardavamo la mamma sempre serena, che compiva bene i suoi doveri, intuivamo nei nostri animi infantili, che ciò scaturiva dal suo contatto con Dio. Quando la campana suonava l’”Ave”, interrompeva il lavoro, giungeva le mani per recitare l’Angelus. Sono soltanto dei piccoli tratti, che possono caratterizzare tanti cattolici, ma quella naturalezza non ricercata e la verità, penetravano il nostro animo come il più nobile dono della fede in Cristo”[7].

La vita interiore e il contegno di Giuseppina riguardo alle gioiose e dolorose esperienze della vita, vengono resi noti nel suo diario e nella biografia, basata in  grande misura su di esso, scritta da chi la conobbe personalmente e pubblicata anche sotto il titolo: Un modello di Madre Cristiana. La Contessa Giuseppina Ledóchowska-Salis (1831-1909). Osservando la sua vita, verrebbe voglia di cambiarlo in “Una Santa Madre di Santi”, unendoci all’opinione delle parrocchiane di Lipnica, che la conobbero e che affermarono: “Fu creata per essere realmente santa, dovrebbe essere proclamata santa prima delle sue figlie”[8].

Dalle pagine del diario emerge la figura di Giuseppina prima di tutto come di una madre che riteneva la maternità il suo più alto e più gioioso dovere. Tale convinzione si univa in modo indissolubile al suo grande rispetto per il dono della vita. In ogni figlio vedeva un nuovo, più meraviglioso dono di Dio, lo accettava con grande gratitudine e gioia: “Per ogni bambino ho sempre la stessa gioia”[9].

La morte prematura di una delle sue figlie la colmò di grande dolore:

“Antonio mi annunciò la notizia che la bambina era morta. Pur lodando il Signore che senza dubbio dirige tutto per il meglio, mi sentii spezzare il cuore. Certo non ho patito invano, giacché al mio angioletto fu aperto il cielo; dovetti però sacrificare la mia gioia alla croce del Signore. Sebbene fosse l’ottava, era pur mia figlia, mia carne e sangue mio, per la quale ho tanto sospirato e della quale mi rimane ancora un’indicibile nostalgia. O, mia dolce bambina, prega per noi”[10].

Dopo ogni parto Giuseppina andava in chiesa, per ringraziare Dio per il nuovo dono della vita e per ricevere la benedizione. I bambini venivano battezzati il secondo o il terzo giorno dopo la nascita, per poter quanto prima essere arricchiti della vita divina.

Come madre aveva una gerarchia di valori ben definita: “La meta di tutti i miei desideri – scrisse nel diario – è di vederli tutti fortemente educati sulla base di saldi principi religiosi: ottenuto questo potrò chiudere tranquillamente gli occhi”[11]. Un evento fu sintomatico. Quando i conoscenti auguravano il cardinalato al suo figlio diletto, Vladimiro, allora giovane gesuita, mandato a Roma dal suo Ordine, la madre rispose tutta seria: “Per lui desidero solamente che vada un giorno in paradiso!”[12].

Nel testamento lasciato ai figli si manifesta il grande cuore materno di Giuseppina:

“Se piacesse all’Onnipotente chiamarmi d’improvviso a sé non voglio tralasciare, figli miei, di dirvi qui la mia ultima parola di affetto e di riconoscenza. Voglia Dio ricompensarvi largamente dell’amore costante che mi prodigate e con il quale avete cercato in tutti i modi di alleggerire i miei affanni. Il Signore che mi ha largito sempre conforto e protezione nelle varie difficili vicende della vita, voglia ugualmente essere sempre paternamente pietoso con voi: questa è stata la mia più ardente preghiera quotidiana, preghiera che non verrà mai meno sino all’ultimo mio respiro. Non è necessario, miei dilettissimi figli, ch’io vi dica con quanto amore dovete amarvi vicendevolmente e che conserviate questo bel vincolo di unità ed affetto, il quale continui ad essere per voi di reciproco conforto e protezione nelle ore di prova. Debbo ai miei tre figli religiosi una grande consolazione della mia vita e conto sull’efficacia delle loro preghiere presso l’Onnipotente, al cui servizio hanno così degnamente consacrato la loro vita (…). Domando di cuore perdono a tutti quelli che, forse senza saperlo, posso aver contristato od offeso. Nel raccomandarmi alle vostre devote orazioni, amatissimi figli, io spero nel Signore, in un beato nostro arrivederci davanti al suo trono. Vostra affezionatissima Mamma che vi amerà anche oltre la morte”[13].

Le decisioni di “consacrare la vita così degnamente”, nascevano non senza  dolore, ma sempre con la sottomissione alla volontà di Dio. Il tre figli più grandi, riconoscendo la volontà di Dio, abbracciarono la via della vita consacrata.

Il primo distacco:

“Martedì, 24 novembre 1885. Un brutto giorno – si pensa costantemente al dolore della separazione. - A mezzanotte ci ha lasciato Maria Teresa. Che Dio assista la cara fanciulla e possa trovare davvero un’esistenza sicura, che le dia contentezza! Per me questo andarsene l’uno dopo l’altro dei miei figli è sempre un rinnovato profondo dolore, ma ogni madre deve accettare tale sorte, specialmente quando il corso degli eventi può rendere possibile ai cari figli un cambiamento in meglio. Certamente su tutti noi – ricchi o poveri – c’è la Divina Provvidenza, che giustamente dirige tutto ciò che è umano. Perciò a Dio vogliamo affidare le nostre speranze”[14].

Nella successiva separazione:

“Mercoledì, 18 agosto 1886. La mia Giulia ci abbandona (…). - Vladimiro l’ha accompagnata dalle orsoline a Cracovia. – una separazione nella vita e per la vita (…). Spaventosa parola! Che Iddio l’aiuti e le faccia trovare la pace dell’anima nella vocazione che spontaneamente abbraccia”[15].

Infine Vladimiro informò la madre della sua decisione di entrare dai gesuiti.

“Vladimiro mi ha oggi cagionato molta gioia e molte lagrime. (…) Ben opprimente è la mia situazione e mi si stringe il cuore, di dover un’altra volta rinunziare ad un figlio, che sognavo dovesse restare con me un giorno come unico appoggio. (…) Che tutto gli riesca bene e farò tacere i miei lamenti”[16].  

I figli, ormai adulti, resero una testimonianza molto bella alla loro madre. Giulia (Madre Orsola), informata della morte della madre, scrisse nella Storia della Congregazione:  “Il 14 luglio [1909] è morta la mia carissima mamma – le ho voluto tanto bene. Mi sembra che per un’anima religiosa la morte delle persone più care non è priva di speranza. La sua anima così pia e santa è andata a Dio – è più vicina a me e io a lei. Questo distacco è doloroso, è vero, ma anche dolce, riempie il cuore di pace divina”[17]. Nell’introduzione alla biografia di sua madre scrisse: “Mia madre praticava le virtù forti e modeste: quella della grandezza d’animo e di un’incrollabile confidenza in Dio. Ciò che siamo e quello che abbiamo – e non  intendo già parlare di beni terreni – dopo Dio lo dobbiamo al tuo amore materno, ai tuoi esempi”[18].

Sono concordi le opinioni dei fratelli. Vladimiro scrisse: “Penso che abbiamo avuto una Madre santa e sono convinto, sulla base di un colloquio molto confidenziale con lei, che non abbia mai offeso Dio in modo grave. E dal cielo ci sostiene con le sue preghiere”[19].

La testimonianza del figlio più piccolo: “La sua edificante pietà fu sempre esempio per noi. Mai dimostrava impazienza verso di noi oppure un’eccessiva severità. Il suo modo di agire fu sempre caratterizzato dalla dolcezza e dalla bontà, virtù che abbiamo spesso ricordato nella corrispondenza tra Vladimiro e me”[20].

 

2.      “Vincolo di unità ed affetto ”

I figli più grandi iniziarono la loro propria vita con una meravigliosa dote quale era stato l’esempio della santa e sapiente vita dei genitori, l’educazione all’autonomia, alla perseveranza, allo spirito di sacrificio e alla laboriosità. L’eredità ricevuta dai genitori, era, senza dubbio, una grande ricchezza, ma occorreva  accettarla personalmente, riconoscerla come propria e svilupparla creativamente secondo il disegno divino, diverso nei riguardi di ciascuno. Questo richiede sempre un grande sforzo. Lo si vede chiaramente nella storia della vita di Maria Teresa, di Giulia e di Vladimiro. Il Signore aveva chiamato ciascuno di essi a grandi cose, sui sentieri sconosciuti della vita e della santità, aveva elargito loro dei doni e gli aveva affidato dei compiti richiedenti un grande sforzo e un grande cuore. Infatti soltanto la collaborazione con la grazia divina e lo sforzo personale, a volte eroico, spiegano l’“eroismo della santità”, divenuto la parte di questo magnifico trio familiare.

Si avverarono gli auspici della madre, espressi nel suo testamento “che i figli conservino tra loro un bel vincolo di unità ed affetto”. Quel vincolo d’amore, stretto nella casa paterna, durò per tutta la vita e unì tutti i figli, che sempre si sentivano spiritualmente vicini tra loro. Esso raggiunse un carattere particolare fra i tre figli maggiori: Maria Teresa, Giulia (Orsola) e Vladimiro, di cui la madre era solita dire: “i miei tre figli religiosi”. Questo particolare legame era esistito tra loro sin dai primissimi anni. Ancora bambini, si confidavano i segreti dei loro cuori, e più tardi si aiutavano nella formazione del carattere, nello sviluppo della vita spirituale e nel discernimento e nella realizzazione della missione della propria vita. Esso si esprimeva non soltanto con il reciproco interesse, ma anche con il vicendevole aiuto e negli sforzi per attuare il Regno di Dio sulla terra. La vasta corrispondenza tra di loro mette in evidenza la comunione di spirito, l’aiuto reciproco. Nelle lettere, talvolta molto lunghe, descrivono sempre con dovizia di particolari tutti i problemi che li travagliano, il che rende possibile leggere nelle loro menti e nei loro cuori. La corrispondenza potrebbe costituire un perfetto materiale per uno studio dettagliato della vita interiore e dell’attività di ciascuna di queste tre grandi figure. Qui mi limito a indicare alcuni dati, riguardanti prima di tutto Madre Orsola e le sue relazioni con Maria Teresa e Vladimiro.

a) Giulia (Madre Orsola) e Maria Teresa

Maria Teresa era di due anni più grande di Giulia. Avevano due personalità diverse. Diverse furono anche le vie sulle quali il Signore le condusse alla santità eroica. Maria Teresa era straordinariamente intelligente, più matura di quanto potesse essere alla sua età ed era bella. Nell’infanzia non aveva pensato di consacrarsi a Dio. Attraversò varie difficoltà nella vita interiore. Giulia, benché più piccola, sin dall’infanzia era dotata di una personalità più armoniosa, matura sotto l’aspetto religioso. Costituiva un sostegno spirituale per la sorella maggiore. Con un’abilità superiore alla sua età, le spiegava i problemi della vita interiore e la aiutava a risolverli. Ventenne scriveva alla sorella: “Ti prego di non abbatterti se – talvolta a causa della stanchezza – non provi più profondi sentimenti di devozione. Non importa, non farci caso! Vuoi vivere per Dio – questo basta. (…) Non rimproverarti se ti accosti spesso alla santa Comunione in tale stato. Chi mai in questo mondo è degno di ricevere il Signore Gesù? L’atteggiamento che ci dispone nel miglior modo a ciò è il riconoscimento della nostra nullità, della nostra incapacità di qualsiasi pensiero buono, unito ad una grande fiducia nella bontà di Dio, che non ci rifiuterà nessuna grazia, se la chiederemo con umiltà. Dove vorresti cercare la pietà e l’amore se non presso Colui che solo è in grado di concederci questi doni? (…). Quanto più ci sentiamo deboli, tanto più abbiamo bisogno del medico, e Gesù stesso vuole essere il medico delle nostre anime. Riponi pienamente la tua fiducia in Lui (…). Felice te, che puoi così spesso unirti a nostro Signore! E’ una prova di grande amore da parte di Dio. Vuole attirarti a sé, ma non vuole che tu sia turbata e afflitta nel suo servizio. Sì, rallegrati quanto puoi, e allontana ogni pensiero triste. Come è possibile essere tristi, al servizio di tale Signore?”[21].

Dopo aver vissuto una profonda conversione, Maria Teresa prese la via dell’eroica donazione a Dio! E s’impegnò totalmente per le missioni africane. Fondò una congregazione, il Sodalizio di San Pietro Claver, dedita all’aiuto delle missioni d’Africa. La sua intelligenza, il senso organizzativo, l’impegno, portarono frutti di un celere sviluppo dell’opera. Operava in Austria e in Italia. Ebbe numerosi contatti a Roma, come fondatrice e superiora generale della nuova congregazione e godeva di grande prestigio.

Le due sorelle rimanevano in costante contatto. Si scrivevano, s’incontravano, specialmente a Roma e, prima di tutto si aiutavano reciprocamente nella vita interiore e nelle attività apostoliche.

Quando, durante il suo soggiorno a San Pietroburgo, Madre Orsola ebbe molte difficoltà di carattere materiale, politico e spirituale, Maria Teresa e Vladimiro furono per lei un costante sostegno: “Devo molto – scrive nella storia della congregazione – a mia sorella Maria Teresa, la quale mi aiutava col denaro; con le lettere da Roma sia Maria Teresa che P. Vladimiro mi sostenevano spiritualmente. Devo tanto, tanto a loro! Con il loro affetto riscaldavano la fredda atmosfera di San Pietroburgo”[22].

Soggiornando a Roma, Madre Orsola si fermava da Maria Teresa: “Naturalmente, di nuovo ci siamo fermate da mia sorella, che ci ha circondate d’amore.  Stavamo meravigliosamente bene”.

Insieme andavano alle udienze private dal Santo Padre Pio X, che nutriva per loro una simpatia particolare. Per questo “La separazione da mia sorella – scrive Madre Orsola - era sempre per lei e per me molto dura, ma il dovere chiamava”[23]. “Salutai la mia cara Maria Teresa, sempre tanto buona con me. Questo nostro congedo fu, come sempre, doloroso: dovevo partire per il Nord”[24]. Dopo la separazione di molti anni - nuovo incontro: “Che gioia rivederci dopo tanti anni! Infatti ci volevamo tanto bene! Poveretta, era sempre più magra e sempre più malata, la forza dello spirito però le donava nuove energie”[25].

Vissero insieme le grandi cerimonie: per esempio la beatificazione dei martiri  dell’Uganda. “Mia sorella attendeva con grande gioia quel bel giorno, viveva infatti dell’Africa, di essa respirava, si dedicò al lavoro per l’Africa. Pochi giorni prima era già arrivato un vescovo dall’Uganda (…). Anche Maria Teresa voleva essere presente. Siamo andate in tre, cioè lei, io e la suora che le fa da infermiera. Dovette portarla sulle braccia attraverso la chiesa – era così debole – e in questo modo la portò fino alla tribuna (…). Maria Teresa era tanto felice, infatti fu un grande giorno per la sua diletta Africa”[26].

“Il congedo da Maria Teresa, che mi diede tante prove di bontà, fu molto doloroso. Ogni sera mi fermavo da lei. Qualche volta – se la salute glielo permetteva – rimanevamo sedute insieme nel giardino. La vedrò ancora? E’ così debole! Chi avrebbe potuto prevedere allora che era l’ultima volta che vedevo la mia buona, amata, santa sorella”?[27].

Maria Teresa morì il 6 luglio 1922.

Da quel momento aiutò la sorella dal cielo. Rimase P. Vladimiro. Il legame tra Madre Orsola e lui era ancora più profondo, poiché raggiungeva i segreti stessi dell’anima.

b) Giulia (Madre Orsola) e P. Vladimiro

Giulia (Madre Orsola) era una bambina poliedrica, che si sviluppava in modo armonioso. Ricevette un’istruzione conforme alle usanze del tempo. Frequentò la scuola delle Dame Inglesi di St. Pölten, a casa imparava le lingue straniere, il pianoforte, la pittura. Sin dall’infanzia dimostrava una sensibilità particolare verso i valori religiosi e verso i bisogni altrui, specialmente verso i fratelli e le sorelle, che aiutava ad educare, impartendo loro lezioni, organizzando giochi, introducendoli nella vita di pietà. I più piccoli la chiamavano “la seconda mamma”.

Il campo della sua azione si allargò, quando la famiglia Ledóchowski si trasferì dall’Austria in Polonia. I figli più grandi erano ormai dei giovani, si stavano delineando le vocazioni della loro vita. Giulia, diciottenne, oltre alle mansioni in casa, aveva stabilito numerosi contatti di carattere caritativo e apostolico, con la gente del circondario.

Vladimiro, di un anno più giovane di lei, rese una bella testimonianza dell’adolescenza di Giulia: “Aveva un cuore estremamente sensibile verso ogni miseria e ogni sofferenza. Dopo il trasloco dei genitori a Lipnica Murowana, circondava di cure e di sollecitudine specialmente gli ammalati e i poveri: andava a trovarli in casa, dava le medicine e rendeva diversi servizi, li consolava. In poco tempo conquistò anche la fiducia e il rispetto non soltanto della gente del luogo, ma anche di quella dei dintorni, in modo che venivano da lontano – da venti o forse più chilometri, sia per ricevere da lei le medicine per i malati, sia per avere un consiglio nelle varie difficoltà e nei vari problemi, infine perché lei facesse da paciera nelle liti tra i vicini e ricomponesse i malintesi. Quella gente spesso così pronta a essere per anni interi in causa con qualcuno, accettava il suo giudizio senza riserve e senza appello”[28].

Tale testimonianza si basava non soltanto sull’osservazione dell’attività della sorella maggiore di un anno. Tra loro esisteva un legame particolare, che andava fino ai più profondi segreti del cuore. Giulia, da  ragazza, confidò proprio a Vladimiro il suo grande segreto – gli svelò il desiderio di fare il dono totale di sé a Dio nella vita religiosa. “Sin dai primi anni della giovinezza – egli scrisse nei suoi ricordi – pensava seriamente a farsi religiosa. Mi confidò questo per la prima volta forse all’età di nove anni e da allora sempre ha perseverato in tale proposito”. Il suo confidente aveva dunque otto anni.

Quando lasciò la casa paterna, per entrare nel convento delle orsoline a Cracovia, il che per la madre rimasta vedova e per i fratelli e le sorelle più piccoli fu un evento colmo di dolore, Vladimiro vigilava affinché “tutto si svolgesse velocemente, senza intenerimenti e senza lacrime”. Fu anche lui ad accompagnarla a Cracovia. In seguito, insieme alla madre, prese parte alla cerimonia della vestizione. Dopo aver ricevuto gli ordini sacri il giovane gesuita volle celebrare la prima S. Messa, con la partecipazione dell’amata madre e della sorella, nel convento delle Suore Orsoline a Cracovia.

Per tutti gli anni successivi Madre Orsola, pur cambiando continuamente i paesi e le forme di attività, mantenne un vivo contatto con Vladimiro, prima chierico gesuita, poi sacerdote al quale vennero affidati vari incarichi nell’ordine, incluso quello di preposito generale (1915-1942). A lui svelava anche i suoi più profondi desideri e progetti per la vita, a lui apriva il suo cuore nel sacramento della penitenza.

Prima della definitiva decisione di donarsi a Dio in modo totale, cioè prima della professione perpetua, Suor Orsola aprì a Vladimiro, allora un chierico gesuita, la sua anima e condivise con lui i suoi desideri e i piani, che dovevano diventare il programma della sua vita: “Con impazienza attendo il giorno felice che mi unirà per sempre al mio Gesù (…). Vladimiro, tu sei in grado di comprendere, che cosa avviene in un povero cuore che vede davanti a sé una meta così alta, così sublime, così luminosa, eppure ineffabile. Quanto più cerco di approfondire il significato dei santi voti, tanto più vedo che solo sul letto di morte potrò comprendere pienamente la grandezza di ciò che dovrà essere la mia parte. Sapessi soltanto amare! Ardere, consumarmi nell’amore! Vladimiro mio, tendiamo insieme a questo, insieme lo desideriamo, ed è per questo che ti voglio tanto bene! (…) Al Cardinale scriverò nei prossimi giorni. Ho dimenticato ancora di dirti che avrò il predicato: “di Gesù”, vuol dire che sarò: Suor Orsola di Gesù. Prega che sia davvero «di Gesù», che Gesù possa considerarmi totalmente sua proprietà e disporre di me come piacerà a Lui, senza resistenze, lagnanze o mormorazioni da parte mia”[29].

Più tardi nella vita, quando il Signore condusse Madre Orsola attraverso  difficili vie, sia quella della missione e delle persecuzioni in Russia, a San Pietroburgo, sia nell’attività pionieristica in difficili condizioni nei paesi scandinavi (Finlandia, Svezia, Danimarca, Norvegia), P. Vladimiro mantenne con lei una costante corrispondenza. Madre Orsola lo informava della sua situazione, egli la consigliava, rialzava il suo morale, e dato che abitava a Roma, l’aiutava nel disbrigo di varie pratiche in Vaticano. Lo faceva sempre volentieri, con dedizione e con efficienza. Alla notizia della sua elezione come preposito generale dell’ordine dei gesuiti (1915) Madre Orsola reagì nel modo seguente: “Naturalmente, per me è stata una grande gioia, perché voglio tanto bene al mio Padre Vladimiro (…). Gli ho scritto subito – e gli ho voluto ancora più bene”[30].

Anche Padre Vladimiro nutriva un grande affetto e una sconfinata fiducia verso  sua sorella. La conosceva interiormente non soltanto dai colloqui o dalle lettere, ma dal confessionale, dato che usufruiva del suo ministero nel sacramento della penitenza, specialmente in occasione degli incontri a Roma. Ecco, una delle sue relazioni: “Il 13 novembre, festa di Santo Stanislao Kostka, mi recai nella chiesa dove c’è la sua tomba. Padre Vladimiro vi celebrò la S. Messa, mi confessai da lui, mi diede (…) la santa Comunione”[31].

Il Signore condusse Madre Orsola lungo vie non convenzionali. Si trovava spesso in situazioni difficili, doveva prendere delle decisioni che comportavano dei rischi. Padre Vladimiro aveva sempre creduto nella purezza delle sue intenzioni e aveva fiducia nelle sue iniziative, spesso molto originali. Mai le imponeva la propria opinione, il proprio punto di vista, il proprio giudizio. Quando si presentavano delle difficoltà, offriva il suo aiuto nel condurre in porto una questione oppure realizzava i suoi progetti. Rispettava le sue decisioni ed era convinto che era il Signore Dio a condurla su una via difficile. Non cercava mai di imporle qualcosa, ma soltanto vigilava, per venirle in aiuto nel caso in cui gli ostacoli e le difficoltà fossero diventati insuperabili.

Padre Vladimiro credeva in una vocazione particolare della sorella. Lo scrisse chiaramente al momento in cui si stava concretizzando la questione della nascita della nuova congregazione: “Sembra anche a me che Dio stia chiamando Madre Orsola a grandi cose, ed  è per questo che dovrà fare una dura via crucis”[32].

Su questa via dolorosa, P. Vladimiro, ormai da molti anni generale dei gesuiti, che godeva di grande fiducia in Vaticano, era per Madre Orsola il miglior cireneo – perché l’amava sinceramente. Nel difficile periodo della sua vita lei stessa scrive “era verso di me infinitamente buono”[33].

Dal punto di vista formale Madre Orsola era superiora della casa autonoma di San Pietroburgo, eretta nel 1908. La comunità, che all’inizio contava tre persone, presto aumentò fino a circa quaranta. Per oltre dieci anni in Finlandia, in Svezia e in Danimarca le suore tennero varie opere. Le condizioni atipiche imponevano la ricerca di soluzioni nuove e la formazione di nuovi atteggiamenti. Terminata la prima guerra mondiale desiderava far ritorno in Polonia, per inserirsi, specialmente nel campo dell’educazione, nella costruzione della Polonia indipendente. Era il tempo in cui stava nascendo l’Unione delle Orsoline Polacche. Madre Orsola desiderava unirsi ad essa. Nonostante la buona volontà da entrambe le parti, non si riuscì ad attuarlo.

Occorreva dunque regolarizzare su altre basi lo stato giuridico della comunità esistente, cioè come congregazione autonoma. Sorsero tuttavia alcune difficoltà. La Madre aveva ottenuto tutti i permessi e tutte le dispense da Pio X, ma il Papa era ormai morto. I funzionari della Curia Romana non erano sufficientemente informati. Gli sforzi della Madre incontrarono dunque delle difficoltà. Nella Storia della Congregazione Madre Orsola scrive: “Sentivo che anche tutti coloro che parlavano con me, non avevano idee molto chiare sul modo di affrontare i nostri rapporti complicati. Mi sentivo sempre più oppressa e triste”[34].

Padre Vladimiro capì che Madre Orsola da sola non ce l’avrebbe fatta, che lei, che una volta godeva della grande benevolenza e amicizia di Pio X, ora non era ben vista in Vaticano. Lo disse in modo chiaro a Maria Teresa, ormai fondatrice del Sodalizio di San Pietro Claver, molto rispettata a Roma: "In Vaticano hanno tanto sparlato di lei, che bisogna che me ne occupi”[35]

E veramente, si interessò personalmente della questione dello stato giuridico della comunità. Dopo aver conosciuto fino in fondo tutte le difficoltà, ritenne che una soluzione migliore e relativamente semplice sarebbe stata il trasferimento dell’erezione della casa di San Pietroburgo al convento di Pniewy, la conservazione delle costituzioni del convento di Cracovia, introducendovi alcuni cambiamenti e la trasformazione del convento autonomo delle Orsoline in una Congregazione distinta, quella delle Suore Orsoline del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante. Madre Orsola, con l’aiuto di P. Vladimiro, presentò le opportune richieste al Vaticano. In breve tempo la questione ebbe esito positivo: “la casa di Pniewy è stata riconosciuta come casa autonoma delle orsoline con il noviziato (…) è stato concesso il permesso di adattare ai bisogni della nuova Congregazione le Costituzioni della casa di Cracovia. Il futuro religioso del mio gruppetto è assicurato. Mi liberai da un grande peso”[36].

Il Signore condusse Madre Orsola attraverso varie vie ed esperienze varie, perché sul vecchio tronco delle orsoline nascesse un nuovo ramo – la Congregazione delle Suore Orsoline del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante.

“Questa felice soluzione dei nostri problemi religiosi la dobbiamo a P. Vladimiro e per questo la nostra Congregazione gli deve perenne gratitudine”[37].

La nuova Congregazione si sviluppava velocemente, sorgevano nuove comunità in Polonia, in Italia, in Francia, aumentavano le file delle suore grigie. Ogni vita nuova richiede un grande sforzo, perciò anche la vita della Madre Orsola non fu priva di fatiche, di contrarietà, di sofferenze. Condivideva le sue esperienze con il fratello, sempre fedele e comprensivo: “Padre mio, non so nulla, so soltanto che soffro e soffro. Ho l’impressione che mio cuore si attorcigli, tanto è il dolore morale, che le angosce mi soffocano durante la notte quando non riesco a dormire, grido soltanto il mio «fiat» e il «Deo gratias» per ogni cosa e volgo i miei occhi al Crocifisso, affinché accolga questo come una consolazione per il Suo Cuore agonizzante (…). Davanti a me è così nero, così buio! E anche la salute si spezza –momentaneamente sto meglio, ma il cuore ormai stabilmente batte in modo irregolare, mi risparmio come posso, mi raccomandano la calma, e qui invece ho mille preoccupazioni, i prezzi vanno alle stelle, la perdita della valuta straniera provoca per me un pericolo di tracollo, se non riuscirò presto ad andare via dalla Danimarca. Prega per me, Padre, grazie tante per la S. Messa, che Dio mi conceda la forza di sopravvivere a questa terribile tempesta, di buon animo, silenziosamente, per il Cuore agonizzante di Gesù. Accetto tutto, sarà quello che Dio vuole. Può darsi che questo mio cuore fisico influisca in modo così opprimente sul mio intimo, sul mio morale, non lo so, ma è dura, terribilmente dura. Davanti a te, Padre mio, io gemo, ma poi – cerco di sostenere con gioia il mio gruppetto nel duro lavoro, talvolta ho l’impressione di non farcela più, di cadere sotto il peso della croce”[38].

Madre Orsola, ormai fondatrice e superiora generale della nuova Congregazione, svela al fratello i più reconditi segreti del suo cuore, compie davanti a lui l’esame di tutta la sua vita. Vuole ancora una volta sottoporre al suo giudizio la giustezza delle proprie iniziative, del proprio contegno nella vita e della propria attività.

“Quasi tutto il giorno ho riflettuto sui doveri che m’incombono, su ciò che mi si presenta come volontà di Dio, come un desiderio ardente del Cuore di Gesù. E forse proprio perché, può darsi, più che a Roma, mi tormenta quel senso di dubbio, di oscurità interiore, voglio dunque, Padre mio, lavorare con tutte le forze su ciò che può consolare il Cuore di Gesù. Penso, che forse Gesù non vuole darmi questa consolazione, quella di aver successo, infatti, è già qualcosa il fatto che l’idea da me lanciata venga accolta e realizzata da altri (…). Se non sento l’ardore, vorrei almeno essere l’anima dell’azione, e sia Gesù a dirigerla, come vuole Lui, per la mia umiliazione, per il mio annientamento, come vuole Lui”[39].

Le lettere di Madre Orsola a P. Vladimiro, del periodo di certi travagli spirituali, “della notte oscura”, mostrano, nonostante le azioni esterne e i successi, le più profonde esperienze della Madre, la sua via dolorosa, e allo stesso tempo il suo amore al Sacro Cuore di Gesù Agonizzante, il suo sottomettersi alla volontà di Dio e la fortezza nelle più dure lotte interiori.

Padre Vladimiro seguiva lo stato d’animo della sua amata sorella, la compativa e soffriva con lei, le dava dei consigli e la rincuorava:

“La tua lettera – scriveva – è stata di grande consolazione per me a motivo del tuo spirito d’umiltà, con il quale accetti i dispiaceri e le umiliazioni. Sorella carissima, questa è la via regale verso il cielo, fonte impareggiabile di pace sulla terra e di abbondantissime grazie per le nostre iniziative e opere. Persevera in questo, e Dio certamente ti benedirà – l’ha fatto incessantemente”[40]. “Non preoccuparti per il futuro, le opere di Dio poggiano non sulle forze o sui mezzi umani, e dove è Lui a costruire, là tutto va avanti, perfino nelle più difficili condizioni! Lascia dunque completamente a Lui la sollecitudine per il tuo gruppetto”[41]. “E in tutte le angosce ricordati sempre, che Lui è sempre con te, mai ti abbandonerà”[42].

Padre Vladimiro, fedele e affettuoso per tutta la vita, unito dai legami di famiglia, rafforzati da quelli soprannaturali, prima di tutto dal comune anelito alla santità, dall’amore per il Cuore Divino e dalla sollecitudine per l’estensione del suo regno sulla terra, accompagnò sua sorella in modo particolare nell’ultima tappa del suo cammino verso il cielo. Fu con lei negli ultimi giorni e nelle ultime ore di vita.

Durante l’ultima, breve malattia andava a trovarla più volte al giorno. L’ultimo giorno non la lasciò per un attimo. Nelle ore dell’agonia, tenendo la sua mano nelle sue, le parlava amabilmente, con le lacrime agli occhi: “Sorella mia amata, Gesù è con te, stai andando da Lui. Ti attendono lì la mamma e  Maria Teresa. Sacro Cuore di Gesù, confido in te”.[43]



[1] Cfr. L’omelia  del  Santo Padre e il resoconto della beatificazione, in: “L’Osservatore Romano”, 22.10.2001.

[2] Notizie più dettagliate riguardanti la famiglia  Ledóchowski si trovano in: S. Wiśniowski, Rodzina Bogiem silna. Antoni i Józefa Ledóchowscy rodzice błogosławionych, Tarnów 1994; J. Ledóchowska, Życie i działalność Julii Urszuli Ledóchowskiej, Poznań 1975, Varsavia 1998, p. 13-19; M. H. Marzani, Un modello di Madre Cristiana. La Contessa Giuseppina Ledóchowska-Salis (1831-1909), Roma 1937.

[3] F. Ledóchowska, Wspomnienia, manoscritto nell’Archivio della Congregazione a Pniewy.

[4] J. Ledóchowska, op. cit., p. 17.

[5] S. Wiśniowski, op. cit., p.16.

[6] Marzani, op. cit., p. 26.

[7] S. Wiśniowski, op. cit., p. 32.

[8] Ibidem., p. 52.

[9] Marzani, op. cit., p. 52

[10] Ibidem., p. 53.

[11] Ibidem., p. 63.

[12] Ibidem., p. 97.

[13] Ibidem., p. 103-104.

[14] Cfr. Marzani, op.cit., p. 85.

[15] Ibidem., p. 87.

[16] Marzani, op. cit., p. 84. 87. 88.

[17] M. O. Ledóchowska, op.cit., p. 11.

[18] Cfr. Marzani, op. cit., p. 7.

[19] Wiśniewski, op. cit., p. 48.

[20] Ibidem., p. 48-49.

[21] M. O. Ledóchowska, Lettera del 15.08.1885 (Archivio della Congregazione).

[22] Storia della Congregazione, p. 8.

[23] Ibidem., p. 15.

[24] Ibidem., p. 28.

[25] Ibidem., p. 100.

[26] Ibidem., p. 102-103.

[27] Ibidem., p. 105.

[28] V. Ledóchowski, Wspomnienia, in: Chrześcijanie (red. B. Bejze), vol. XV, Varsavia 1975, p. 251.

[29] Lettera a P. V. Ledóchowski, 1899 (Archivio della Congregazione).

[30] Ledóchowska, Storia della Congregazione, p. 52.

[31] Ibidem., p. 28.

[32] P. V. Ledóchowski, Lettera a M. Szydłowska del 21.03.1920.

[33] Cfr. Ledóchowska, Storia della Congregazione, p. 36.

[34] Ibidem., p. 101.

[35] Ibidem., p. 104.

[36] Ibidem.

[37] Ibidem.

[38] M. O. Ledóchowska, Lettera del 14.11.1921.

[39] M. O. L., Lettera del 29.06.1930.

[40] P. V. Ledóchowski, Lettera del 16.12.1922.

[41] P. V. Ledóchowski, Lettera del 11.12.1925.

[42] Ibidem., Lettera del 20.08.1930.

[43] J. Ledóchowska, op. cit., p. 377.


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