La Congregazione delle Suore Orsoline del S. Cuore di Gesù Agonizzante

 

RITIRO ANNUALE 2010

 

 

Le COMUNITA' in Italia

 


 

 


 

 

 

 

le CARATTERISTICHE della CARITA’

La carità è paziente. L a pazienza sa accettare,sa aspettare,e sa fare qualche sacrificio. Se io amo l’altro so aspettare i suoi tempi. Un gesto di rifiuto non la chiude in se stessa. E’ generosa ,munifica,signorile. E’ La caratteristica di chi  è ricco non di beni materiali ma di cuore .Il termine magnanime è significa cuore grande. La carità è divina ,è il cuore stesso di Dio che arriva agli altri attraverso il nostro cuore. La mancanza di riconoscenza non la intristisce. Se amo ,accetto l’altro com’è,anche quando non corrisponde alle mie attese e ai miei desideri. Voglio amare  l’altro con i suoi limiti e le sue qualità. Gli altri non sono come io li avevo immaginati. La pazienza è questa capacità di accogliere,capire e attendere  la maturazione dell’altro. Amarlo nella fiducia che l’altro riuscirà a migliorarsi.

La carità è benigna. La carità vuol bene,pensa bene e fa il bene del prossimo. E’ disponibilità ad aiutare ,a favorire la crescita dell’altro,a comprendere e interpretare bene i suoi desideri. Sono più pronto a scusare che a criticare, gioisco sempre dei suoi successi. Dio è benevole verso tutti i buoni e cattivi,non restituisce male per male. L’ira di Dio dura un istante la sua bontà per tutta la vita.

La carità non  è invidiosa. L’invidia  è un sentimento di cui ci vergogniamo e non amiamo manifestare neanche a noi stessi. Riconosciamo di essere orgogliosi ma non invidiosi. L’invidia scatta quando si guardano gli altri e si fanno paragoni. Ognuno è abitato dal segreto desiderio di essere il primo,è agitato dalla paura di essere superato e restare ultimo. Questo capita specie con le persone che sono vicine e di cui conosciamo  pregi e virtù e  vediamo che si affermano. Sorge amara la domanda perché  lui e non io? Scopo della nostra vita è realizzare se stessi,e in  questo sta la felicità. L’invidioso  è uno che soffre un complesso di inferiorità. Noi siamo diversi. Educarci a guardare gli altri  con  gli  occhi del fratello e non del rivale. L’altro non mi è estraneo  perciò devo gioire dei suoi successi.

La  carità non si vanta. La vanità non è solo  femminile ma anche ecclesiastica. Essere il centro di tutto e di tutti. Io…io…Essere ammirati. Fate un elogio ad una bambina..per l’abito nuovo…Il taglio di capelli …Si desidera il consenso per coltivare la propria vanità e coprire la propria incertezza. Si teme di essere sottovalutati e si mettono davanti i propri successi…facilmente per emergere non si fa che parlare male degli altri,mettendo in risalto i limiti o i difetti. Chi ama sta al suo posto,lascia che siano gli altri ad accorgersi del suo valore. Chi ama  è amato e sarà la persona amata far conoscere il suo valore .La verità e il bene si fanno strada da soli.

Non manca di rispetto. E’ pudica,non sfacciata,educata e non formalista. Non cerca il suo interesse. Il centro di gravità non sono io  ma Dio negli altri.

Non si adira.L’ira esplode quando un nostro diritto è calpestato ed è il primo passo verso il male..C’è l’ira medicinale,la ribellione al male ,ma mai al peccatore.Nell’ira non peccate,non tramonti mai il sole sopra la vostra ira”(Ef.4,27).

Non tiene conto del male ricevuto. Non bisogna mai scrivere con inchiostro indelebile nel proprio libro il male ricevuto. Non rinfaccia il male che riceve con non rinfaccia il bene fatto.

Non gode dell’ingiustizia. La carità non approva  mai nessuna forma di ingiustizia. Essa gode della verità perché essa  è un riflesso della luminosità di Dio.

Tutto copre: non mette il sale sulle ferite,non amplifica le parole cattive o i giudizi negativi sugli altri,invece attutisce i contrasti,lenisce le sofferenze,accoglie il male senza farlo rimbalzare all’esterno.

Tutto crede.  Non perde mai la fiducia. Nonostante le ingratitudini,i fallimenti  punta tutto su Dio,in cui pone tutta la sua fiducia.

Spera tutto. Vede sempre di fronte a sé un futuro aperto,il futuro come strada di Dio che traccia  tra le miseri umane.

Sopporta tutto. Si fa carico delle miserie degli altri,dei pesi degli altri.E’ la croce legata a chi vive la carità.

Conclusione.

Cristo ci ha amato dando la sua vita per noi. A noi viene chiesto di accogliere questo amore nella fede. Solo in questo modo la nostra vita viene giustificata e ci diventa  possibile vivere in comunione con Dio.

    L’amore di Dio accolto nella fede ci fa figli di Dio e quindi ci libere dalla debolezza e impotenza della carne per renderci capaci di una vita nuova,La novità di questa esistenza  è la forza dello Spirito e  la capacità di amare. Questo comandamento è nuovo perché  è  la forma di esistenza della nuova creazione. Amare i fratelli significa dare la vita per loro,mettere l’altro gioiosamente al centro delle proprie scelte.


Il Padre Misericordioso

 

    Disse ancora: Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolse le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi delle carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide e, commosso, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello più grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a fare festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: E' tornato tuo fratello e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma egli rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito ad un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio, il quale ha divorato i tuoi averi con le prostitute, è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato" (Lc 15,11-32 )

 

Preludio

    Questa parabola lucana va all'interno dello stesso capitolo 15, presentandosi subito dopo altre due parabole: quella della pecora perduta e della dracma perduta, due parabole che non a caso si trovano collocate in questo punto. Inoltre, al lettore attento non può sfuggire la strana formula introduttiva riportata al v. 3: "Allora egli disse loro questa parabola". Strana introduzione, visto che poi le parabole sono tre. Luca non si sta prendendo gioco del suo lettore, ma vuole così indicare un criterio di lettura che parte dal presupposto di un'unica parabola. Le tre parabole del capitolo 15 vanno dunque lette come se fossero una sola. Ci chiediamo allora in che senso.La parabola della pecora perduta presenta una forma di allontanamento da Dio che si realizza in un allontanamento fisico; essa descrive, infatti, la perdita di una pecora che si allontana dall'ovile. La seconda parabola, quella della dracma perduta, ha una caratteristica notevolmente diversa: la moneta si perde senza allontanarsi. Essa si perde rimanendo a casa. Queste due immagini della pecora perduta e della moneta perduta corrispondono alle due parti della terza parabola, in cui si parla di un figlio minore che, come la pecora, si allontana fisicamente per poi tornare, e si parla di un figlio maggiore, che si perde ugualmente, pur senza essersi mai allontanato da casa. Questo secondo modo di allontanarsi da Dio è ancora più sottile di quello causato dal peccato esplicito, e in un certo senso anche più drammatico, perché spesso accompagnato dall'illusione di essere a posto. È possibile perdersi rimanendo a casa; è possibile perdere i contatti con Dio, senza allontanarsi dalla pratica cristiana, così come una moneta si può perdere senza uscire da casa. Il figlio maggiore personifica senza dubbio questo secondo tipo di ribellione nei confronti di Dio, una ribellione occulta, nascosta, che interrompe la comunicazione intima con il Signore, senza che esteriormente nulla sia mutato. In sostanza: si può rompere la comunicazione con il Signore in diversi modi, apostatando, manifestando apertamente il proprio dissenso, scegliendo di vivere nel peccato: nella simbologia del capitolo 15 questa è la pecora che si allontana o il figlio che, avendo preso la sua eredità, se ne va da casa; ma c'è questo secondo modo di allontanarsi da Dio, più sottile e subdolo, che esteriormente potrebbe non manifestare alcun fenomeno peccaminoso. Le due parabole più piccole, allora, gettano luce sulla parabola più grande, e scopriamo così che questi due figli hanno peccato nei confronti del loro padre allo stesso modo, anche se con due modalità differenti.

 

La vera natura del peccato del figlio minore

    Il messaggio generale della parabola è molto chiaro: l'atteggiamento del padre intende riflettere la misericordia di Dio, come un atteggiamento di incondizionata accoglienza dell'uomo. Ma se da un lato l'atteggiamento del padre riflette quello di Dio, dall'altro lato, il mistero del peccato, rappresentato dai due figli, ha bisogno di essere chiarito nella sua vera natura; e possiamo anche aggiungere che questa parabola non è sufficientemente compresa, fino a quando non si risponde alla domanda che riguarda la vera natura del peccato del figlio più giovane. La natura di questo peccato, una volta scoperta, getta una nuova luce sull'atteggiamento del figlio maggiore. Entrambe le figure intendono rappresentare due categorie di persone. La domanda da cui bisogna partire per capire la parabola è questa: quale sia la natura del peccato del figlio più giovane. Il figlio più giovane riconosce se stesso come peccatore e quindi, indubbiamente, un peccato c'è nella sua storia personale, ma a questa domanda alcuni potrebbero rispondere che questo fratello più giovane ha peccato perché si è allontanato da casa, tagliando senza motivo i ponti con i propri familiari, per costruirsi una vita indipendente. Questa risposta però non sembra molto convincente, per il semplice fatto che, nell'esperienza comune, nessun figlio rimane a casa con i propri genitori a tempo indeterminato, e prima o poi tutti si diventa indipendenti. Nessun genitore si sentirebbe di colpevolizzare il figlio che, ad un certo momento, raggiunta la capacità lavorativa e la maggiore età, decida, com'è nel suo diritto, di vivere una vita indipendente, fondando una nuova famiglia e allontanandosi da quella di origine. Allora il peccato del figlio più giovane è quello di essersi allontanato da casa? Non sembra proprio. Altri potrebbero rispondere che questo figlio più giovane ha peccato, in quanto ha sciupato il patrimonio familiare: lo ha investito male, lo ha speso per cose inutili, semplicemente per divertirsi vivendo da dissoluto. Ma anche questa risposta non convince molto, perché è vero che questo giovane ha sciupato un patrimonio, ma non ha sciupato se non la propria eredità, alla quale peraltro non ha più diritto, avendola già ricevuta e investita a modo suo. Quindi, il peccato di questo figlio più giovane non è quello di avere sciupato il patrimonio, perché ha sciupato in fondo quello che gli apparteneva. Bisogna cercare altrove la vera causa del peccato, che lui stesso riconosce, e occorre fare riferimento, a questo punto, alla posizione della parabola all'interno del capitolo 15. In particolare occorre rammentare il motivo, già spiegato, per il quale Luca ha voluto premettere altre due parabole molto brevi a questa parabola più lunga. A partire dalle due parabole introduttive, possiamo comprendere meglio questo peccato da cui un po' tutti abbiamo bisogno di guarire, e che potrebbe essere commesso in due forme esteriori diverse, ma identiche nel loro spirito.

Il primo versetto chiave è questo: "il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze" (v. 12). La stranezza di questo versetto, ma anche il suo carattere significativo, è che ordinariamente nessun padre distribuisce l'eredità se non in previsione della propria morte; qui la situazione è molto diversa: il figlio gli chiede di dividere le sostanze come se il padre stesse già per morire. Chiede l'eredità, perché in realtà, dentro al suo cuore, il padre è già morto. Questa è una prima risposta al peccato del figlio minore, che in fondo non differisce nella sua sostanza dal peccato del figlio maggiore: l'eliminazione della figura paterna.

Possiamo ulteriormente interrogarci sulle motivazioni che spingono questo giovane ad andarsene:

- Il bisogno di sentirsi autonomo. In questo caso la figura del padre (immagine di Dio) è sentita come un limite imposto alla propria libertà, e i doni che si hanno si considerano come una proprietà personale, a cui si ha diritto: "dammi la parte che mi spetta" (v. 12)
- Egli intende la propria partenza come una partenza senza ritorno: "raccolse le sue cose" (v. 13). La sua emancipazione è totale e la sua partenza da casa ha il sapore di un nuovo inizio.
- La decisione di partire non è preparata da alcun momento di riflessione, come invece sarà preparato il suo ritorno (cfr. v. 12 e v. 17).
- Egli concepisce la libertà come la possibilità di fare tutto ciò che piace: v. 13b. In seguito, egli comprenderà di essersi ingannato su questo punto. La libertà offerta da Dio non è di questo genere e non consiste nella eliminazione degli ostacoli che frenano i nostri desideri personali, ma nella rimozione degli ostacoli che ci impediscono di crescere nella nostra dignità di figli. E questa libertà è impossibile raggiungerla, quando si è lontani da Lui.

 

Il cammino verso se stesso

    Il figlio minore, allontanandosi fisicamente dalla casa paterna, aveva fatto un movimento locale, geografico, e da un luogo si era trasferito in un altro. Ma in tutto questo tempo era stato come fuori di sé. Il cammino di ritorno verso casa viene quindi preparato da un movimento di ritorno verso se stesso, ossia il recupero dell'interiorità e della capacità di meditazione. Era proprio questo che gli era mancato fino a quel momento. Anche la sua stessa partenza, come abbiamo già notato, non è preparata da alcun momento di riflessione, essa era stata solamente annunciata (Il più giovane disse…"), ma non meditata. Quando però rientra in se stesso, egli si accorge di alcune cose che prima, nella sua alienazione da sé, non aveva visto, e precisamente:La libertà di fare tutto ciò che piace ha come prezzo l'impoverimento della propria personalità, cioè la perdita della dignità di figlio (v. 19). Questa esperienza di vuoto lo porta a scoprire finalmente la statura morale di suo padre. A questo punto, gli diventa chiara una verità che gli era sfuggita, anche se era stata sotto i suoi occhi per tutto il tempo della sua permanenza a casa: suo padre tratta con umanità perfino i garzoni, mentre tanti uomini mediocri fanno pesare sugli altri quel minimo di autorità che spesso posseggono. Era fuggito da un uomo degno di stima ed era caduto nelle mani di un personaggio gretto e meschino. Per di più, lì era figlio, qui schiavo. Soprattutto prende coscienza del suo vero peccato: non l'essere partito da casa, né l'avere dilapidato il patrimonio, ma l'essere vissuto sotto lo stesso tetto con suo padre, senza avere conosciuto il suo cuore e la sua statura morale. Dal seguito della storia si vede come lo stesso peccato gravi anche sulla coscienza del fratello rimasto a casa, che però, al suo confronto, si crede giusto. Così come possiamo comprendere alla luce di un altro versetto chiave, il v. 17, quando lavorando sotto un padrone, che lo manda a pascolare i porci, dice il testo che rientrò in se stesso e disse: "Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza ed io qui muoio di fame!". Si tratta di un ricordo che adesso s'illumina sotto un aspetto nuovo. Questo giovane aveva avuto sotto i suoi occhi uno stile di vita, un modo con cui suo padre trattava i dipendenti, e solo adesso si rende conto della statura morale di questo padre. Questo atteggiamento del figlio, il suo rientrare in se stesso e il suo ricordare il passato, getta una nuova luce, perché solo in questo momento, lontano da casa e dal padre, il giovane comprende la nobiltà d'animo di quell'uomo con cui era vissuto tanti anni sotto lo stesso tetto senza mai essersene reso conto. Adesso, conosciuta la sua statura, egli desidera ritornare a casa vivendoci anche nel ruolo di un servo; da qui si comprende il senso del suo allontanamento: ciò che lo spinge ad allontanarsi da casa, è la non conoscenza della paternità, ma se si continua a leggere il testo e si osserva bene la figura dell'altro fratello, quello rimasto a casa, si scopre in lui la stessa disposizione di animo.
 

L'incontro col padre

    I vv. 20-21, che descrivono l'incontro del figlio minore con suo padre, contengono anche una teologia: va notato che la manifestazione, o meglio la confessione del proprio peccato, espressa al v. 21, è successiva e non anteriore alla manifestazione piena dell'amore del Padre. Qui il testo non dice che il padre ha aspettato che il figlio gli dicesse di avere peccato, per poi eventualmente abbracciarlo. La posizione degli elementi nel racconto è esattamente contraria: prima è descritto l'abbraccio, che esprime l'incondizionata accoglienza di Dio verso l'uomo peccatore, e poi al v. 21 è descritta la confessione del peccato. Questo non è solo una tappa del racconto della parabola ma è una teologia della riconciliazione, che potremmo formulare così: ognuno di noi non può esprimere a Dio la confessione del proprio peccato, se prima non è stato toccato dalla sua Misericordia; aggiungiamo pure che chi non è stato toccato dall'amore di Dio non è neppure in grado di sentirsi peccatore. Quindi, il fatto stesso che noi sentiamo il bisogno di confessarci, è la prova tangibile che siamo già stati raggiunti dalla sua Misericordia, la quale è sempre preveniente: "quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò" (v. 20). Questa manifestazione d'amore, questo essere raggiunto dalla Misericordia del Padre, è l'ultima spinta verso la confessione, che ha luogo cronologicamente dopo: "il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te" (v. 21). Il figlio, con queste parole vuole dirgli: "Padre, io ho peccato contro di te, perché sono stato con te una vita intera e non ti ho conosciuto, non ho conosciuto la grandezza del tuo cuore, e ho proiettato in te, le meschinità del mio. Perciò non ho saputo vivere da figlio, quale tu mi volevi". Questa è la confessione più vera del nostro peccato davanti a Dio. Non si tratta tanto di pentirsi di atti peccaminosi singolarmente presi, ma di quella disposizione di animo che è la madre e la generatrice di tutti i peccati possibili: la non conoscenza della divina paternità. Inoltre, l'espressione del giovane, "ho peccato contro il Cielo e contro di te", sottolinea l'essenza più vera del pentimento. Egli non prova dolore tanto per il fatto di avere danneggiato il patrimonio familiare o per avere impoverito se stesso, quanto piuttosto per avere agito slealmente contro chi non meritava affatto un tale trattamento. Il dolore di avere tradito l'Amore, solo questa è l'anima del vero pentimento. Non è un pentimento perfetto quello di chi ritorna a Dio dopo avere aperto gli occhi sulle rovine causate a se stesso col peccato personale, ma senza avere ancora la consapevolezza di cosa significhi aver tradito l'Amico. Notiamo ancora che il padre non gli fa terminare la frase di pentimento che egli aveva a lungo ripetuto tra sé e sé prima del suo ritorno, interrompendolo nel punto in cui stava per dire: "trattami come uno dei tuoi garzoni". Dio accetta solo il nostro pentimento, ma non accetta che noi occupiamo un posto inferiore a quello a cui Lui ci destina, qualunque sia stato il nostro peccato.

 

La gioia del padre e di tutta la sua casa

    Proprio perché ha scoperto la nobiltà di animo di suo padre, il figlio minore ritorna senza paura, deciso però a vivere come un garzone, ritenendosi indegno di un padre così. La scoperta della verità del padre, cioè la sua statura morale e la sua nobile paternità, lo porta contemporaneamente alla scoperta della verità di se stesso svincolato dalla sua relazione col padre: "sono un garzone": (v. 19). Ma proprio nel momento in cui il figlio (l'uomo) giunge alla piena e serena coscienza di ciò che può divenire senza il padre (senza Dio), il padre stesso lo riporta alla coscienza della sua originaria dignità, e gli fa mettere l'abito più bello, l'anello e i calzari (v. 22).

 

Lo sdegno del fratello maggiore

    La parte finale della parabola presenta lo stesso dramma della prima, ma senza redenzione. Un aspetto che fa certamente pensare, nell'uno e nell'altro fratello, è la loro incapacità di vedere le cose che hanno sotto gli occhi. Abbiamo notato già come il fratello minore abbia scoperto la statura morale del padre solo dopo essersene andato da casa. Ma mentre stava a casa ce l'aveva sotto gli occhi. Il fratello maggiore sperimenta lo stesso tipo di inquietante cecità: è trattato dal padre con lo stesso amore e la stessa sollecitudine con cui è trattato suo fratello, ma lui non se ne rende conto. Il padre esce di casa per andargli incontro e gli garantisce una posizione di figlio in senso pieno: (cfr. vv. 28b.31). Esattamente quel che aveva fatto per il minore. Ma il figlio maggiore non è in grado di vedere questa verità che ha sotto gli occhi: il padre ha stabilito con lui un vero rapporto paterno, mentre lui non ha stabilito col padre un vero rapporto da figlio, vivendo piuttosto come un lavoratore dipendente, e soprattutto negando l'amore attraverso il primato del merito: "non ho mai trasgredito un tuo comando": (v. 29). Le sue parole solo cariche di un rimprovero ingiustificato, visto che tutto ciò che il padre possiede è suo (cfr. vv. 29.31). Questa eccessiva confidenza nelle proprie opere, e nella propria perfezione legale, snatura il suo rapporto filiale e lo indurisce, al punto tale da non accorgersi di un'altra cosa stupenda che si è verificata sotto i suoi occhi: il ritorno del fratello, che è visto dal padre come un ritorno dalla morte alla vita (cfr. v. 32).Anche lui pur rimanendo a casa, accanto a suo padre notte e giorno, sembra non avere compreso il cuore di quell'uomo, né la sua statura morale. Qui il testo ha un carattere particolare dal punto di vista del lessico: l'autore non mette mai sulle labbra del figlio maggiore, la parola "padre". Quando il figlio maggiore è descritto nell'atto di entrare in relazione con il padre, questa relazione non è mai presentata con le tonalità del rapporto padre-figlio. Non compare mai, sulle sue labbra, la parola "padre", come non vi compare neppure la parola "fratello"; il riferimento al fratello che ritorna è espresso da lui con parole che creano una certa distanza: "ma ora che questo tuo figlio è tornato" (v. 30) . Le due cose sono collegate, la non conoscenza della Paternità di Dio, impedisce al figlio di sentirsi fratello dell'altro, ma nello stesso tempo lo acceca su un miracolo straordinario, che è avvenuto sotto i suoi occhi e che il padre inutilmente gli fa notare: "Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita" (v. 32); dall'altro lato, l'atteggiamento del padre sembra identico nei confronti dei due figli e questo sottolinea come, in realtà, quando l'uomo muove accuse a Dio, non parla secondo verità e non fa altro che proiettare in Lui le meschinità del proprio cuore. In definitiva: la capacità di vivere nella divina paternità ci immette in un ordine nuovo, che è l'ordine della conoscenza del Cuore di Dio; solo a questa condizione possiamo restare nella sua casa senza vivere da servi, sentendoci fratelli e figli. La parabola si chiude sulle parole del padre, che parla accoratamente al figlio maggiore e cerca di ricondurlo alla sua verità personale, che è duplice: una verità di figlio e di fratello. (cfr. vv. 31-32). E Cristo, nel suo narrare, si ferma qui. Non sappiamo quale sia stata la risposta del fratello maggiore. Anche noi ci fermiamo qui e lasciamo al lettore il compito di fare ulteriori considerazioni su questo silenzio di Gesù.


Il buon samaritano

    "Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: "Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna? ". Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi? ". Costui rispose: " Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso". E Gesù: "Hai risposto bene; fà questo e vivrai".  Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è il mio prossimo? ". Gesù riprese: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti? ". Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Và e anche tu fà lo stesso".
Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: "Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma Gesù le rispose: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta". ( Lc 10,25-42 )

    La parabola del buon samaritano è uno di quei testi che non possono essere letti da soli. L'evangelista Luca, scrivendo il suo vangelo, spesso utilizza dei quadri che si trovano in una relazione interdipendente tra di loro, cosicché non è possibile considerare solo uno dei due quadri, senza impoverire al tempo stesso anche l'altro. Il rischio sarebbe quello di cogliere una parte e non capire l'insegnamento nella sua totalità.I due quadri che Luca collega l'uno all'altro, con un intento che preciseremo più avanti, sono quello del buon samaritano e quello della visita di Cristo nella casa di Marta e Maria. Si tratta di due quadri inseparabili tra loro, perché entrambi non fanno altro che rendere visibile, con una immagine, i termini della verità posta in questione nella domanda rivolta a Cristo da un dottore della legge per metterlo alla prova: "Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?". La risposta di Gesù focalizza i due comandamenti fondamentali, coi quali il Maestro risolve la questione: "Amerai il Signore Dio tuo, amerai il prossimo tuo". Il primo dei due quadri, cioè parabola del buon samaritano, rende visibile, nella concretezza del racconto, l'atteggiamento che traduce l'esigenza di Dio a proposito dell'amore del prossimo. Mentre il secondo quadro, la visita di Cristo a casa di Marta e Maria, esprime visibilmente come debbano tradursi le esigenze dell'amore nei confronti di Dio. Questo quadro di Marta e Maria aggiunge anche un particolare di notevole importanza: non soltanto chiarisce in cosa consista effettivamente l'esigenza di Dio, quando chiede all'uomo di amarlo con tutto il cuore e con tutta l'anima, ma afferma abbastanza nettamente, sebbene tra le righe, che questi due amori, quello che si rivolge a Dio e quello che si rivolge all'uomo, non si possono mai separare senza snaturarli entrambi, finendo per non amare né l'uno né l'altro.

 

La domanda sulla vita eterna

    Innanzitutto dobbiamo osservare che alla domanda del dottore della legge, Cristo dà una risposta molto simile a quella data al giovane ricco che gli pone la stessa domanda: "Maestro, cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?" (Mt 19,16). La risposta di Gesù al giovane ricco e al dottore della legge non contiene alcun richiamo alle esigenze del Vangelo, ma a quelle della legge mosaica: "Che cosa sta scritto nella legge?" (Lc 10,26). Questo è un dato di base che ci permetterà di fare il discorso successivo. Forse alla domanda: "Cosa devo fare per avere la vita eterna?", ci saremmo aspettati una risposta del tipo: "Bene, se vuoi entrare nella vita, osserva il Vangelo". Invece non è così; la prima risposta di Cristo è: "Osserva quello che Mosè ha stabilito nel decalogo". La legge mosaica introduce già il credente nell'ordine della volontà di Dio, ma non gli permette di giungere alla perfezione, che consiste solo nella sequela di Gesù. La vita cristiana arriva in sostanza come un perfezionamento, nel senso che prima di giungere alle virtù della santità cristiana, bisogna almeno avere maturato nella propria vita la legge morale indicata dai comandamenti: non possiamo mai pensare di giungere alle virtù più grandi, se facciamo fiasco in quelle più piccole. Non possiamo pensare di poter praticare le virtù eroiche richieste dal cristianesimo, se le virtù umane, ossia quelle che stanno alla base di qualunque giustizia minima, non vengono osservate. Questa precisazione è necessaria, perché, nell'entusiasmo dei primi tempi della conversione - ed è questo l'errore in cui tutti siamo caduti - abbiamo pensato di lanciarci verso il "di più", mentre avevamo ancora da costruire ciò che è più elementare e ciò che è più basilare.E' proprio questa la prospettiva di Cristo nella sua risposta alla domanda posta dal dottore della legge, come pure dal giovane ricco: "Cosa devo fare per avere la vita eterna?". Come se dicesse: In primo luogo, cerca di maturare le virtù fondamentali dell'uomo, rappresentate dalla legge di Mosè, dopo, e solo dopo, "Vendi tutto e seguimi". Quest'ultimo, come sappiamo, è l'invito fatto da Gesù al giovane ricco e non al dottore della legge. A questi, Gesù chiederà di imitare il samaritano. Nella sua divina pedagogia, Cristo esige che prima l'uomo si completi nelle sue virtù basilari, cioè nelle virtù che formano l'uomo, e poi ci conduce verso la santità. Ma giungere alla perfezione della santità, presuppone avere attraversato le tappe precedenti, e non averle sorvolate come se non fossero necessarie. E' degna di particolare attenzione la domanda riportata al v. 26: "Gesù gli disse: che cosa sta scritto nella legge?". A partire da questa affermazione fondamentale, successivamente il discorso si amplia, ed entra dentro la prospettiva cristiana, affrontata dal testo di Luca nei due quadri successivi, quello del buon samaritano e quello della visita di Gesù a Marta e Maria. Anche qui abbiamo dei versetti chiave da individuare. Partendo dalla parabola del buon samaritano, che chiarisce il significato dell'amore del prossimo così come Cristo lo intende, adesso non siamo più dentro la prospettiva mosaica, la legge di Mosè è stata citata, è stata messa alla base di qualunque cammino di santità, ma, nello stesso tempo, essa è destinata a essere superata. Le esigenze concrete dell'amore verso il prossimo, indicate dal Levitico con l'enunciato: "Amerai il prossimo tuo come te stesso", vengono presentate da Cristo mediante una parabola, che le traduce appunto nella persona del suo protagonista, ossia il samaritano. Al tempo stesso, vi sono anche delle figure di contrasto, ossia il levita e il sacerdote, che personificano un tipo di amore essenzialmente diviso, vale a dire un amore che separa Dio dal prossimo e che finisce, di conseguenza, per non amare nessuno dei due. E ciò verrà riaffermato ancora una volta nell'episodio che segue: l'incontro di Cristo con Marta e Maria, nella loro casa. Quando l'amore di Dio e l'amore del prossimo si separano, si snaturano entrambi. Cercheremo di verificare, nei versetti chiave del nostro testo, questa affermazione di fondo.

 

La separazione di due amori

    La parabola del buon samaritano narra di un malcapitato viaggiatore che, in tratto di strada solitaria, incappa nei briganti, che lo spogliano, lo percuotono e poi se ne vanno, lasciandolo mezzo morto. Questa definizione del malcapitato va compresa nell'economia del racconto: "lo lasciarono mezzo morto". Queste parole spiegano infatti l'atteggiamento del sacerdote e del levita, che non è frutto di una semplice trascuratezza, come si potrebbe pensare. Tali parole alludono proprio a quella separazione dei due amori, a cui abbiamo già accennato, che li snatura entrambi. Il testo si esprime esattamente così: "lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto"; a questo punto entrano in scena i due personaggi di contrasto: la figura di un sacerdote, al v. 31, e la figura di un levita, al v. 32, i quali lo vedono e passano oltre. La ragione per cui questi due personaggi passano oltre è da ricercarsi nella definizione del malcapitato, che viene lasciato dai suoi aggressori "mezzo morto". Egli è dunque svenuto e può sembrare un cadavere a chi lo guarda da lontano. Va qui ricordato che il libro del Levitico stabilisce per i sacerdoti e per i leviti una particolare proibizione: essi non devono toccare i cadaveri, per non contaminarsi. Al contatto con un cadavere, secondo il Levitico, si contrae una forma di impurità che impedisce l'accostamento alle cose sacre, cosa che invece i leviti e i sacerdoti dovevano fare occupandosi del Tempio e dei sacrifici, secondo l'ordinamento del sacerdozio di Aronne. Dicevamo che appunto la definizione di questo malcapitato allude indirettamente al Levitico e al tempo stesso chiarisce l'atteggiamento dei due, che non è semplicemente un passare oltre, come fosse una semplice noncuranza; c'è dietro qualcos'altro che Cristo vuole mettere in risalto: questi due personaggi, sapendo bene che il Levitico proibisce loro di toccare un cadavere, e temendo che quest'uomo incappato nei briganti fosse morto, e non semplicemente svenuto, passano oltre per non contaminarsi. Il loro zelo di ubbidire alla legge mosaica li porta a non verificare neppure la condizione reale di quell'uomo disteso sulla via. La paura di compiere una trasgressione, li porta a non accertarsi della condizione di quell'uomo, che poteva essere ancora vivo. O peggio ancora, trovano nella legge di Dio, una scusa plausibile per non farsi carico dei mali altrui. Cosa indica allora questo passare oltre, alla luce della legislazione levitica? Significa che questi due personaggi, il sacerdote e il levita, per ubbidire a Dio che, nella sua legge impone ai sacerdoti di non toccare i cadaveri per non contaminarsi, lasciano un uomo abbandonato a se stesso, senza curarsi di verificare se fosse vivo o morto.
E' questo il punto focale, il tasto dolente che Cristo fa risuonare alla coscienza del dottore della legge - e attraverso di lui si rivolge a ogni discepolo -; poco dopo lo farà risuonare nell'altro episodio immediatamente successivo: l'incontro con Marta e Maria. Questo tasto dolente consiste nella separazione del primato di Dio e del primato dell'uomo. Infatti questi due personaggi, da un lato amano Dio ubbidendo alla sua legge; si allontanano così da quello che sembra un cadavere. Dall'altro lato, però, non hanno amato l'uomo, perché sono sfuggiti alla fatica di compiere una verifica. Il risultato è che, non amando l'uomo, non hanno amato neppure Dio. La loro ubbidienza alla legge di Mosè è stata solo apparente. Ecco come si va a collocare nella sua giusta posizione quello che è un insegnamento ricorrente nel Vangelo e che noi enunciamo così: tutte le volte che uno separa l'amore di Dio dall'amore del prossimo finisce per non amare né l'uno né l'altro. In quel modo si cade all'interno di un legalismo che offre soltanto una parvenza di giustizia, in cui la sostanza dei comandamenti manca completamente. I due giudei vi cadono in pieno. Invece, un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione; questo della compassione è un elemento mancante nella persona del sacerdote e nella persona del levita. Cristo intende qui sottolineare che la causa della separazione dei due amori, la cui conseguenza è quella di non amare nessuno dei due, va ricercata in qualcosa che non funziona nelle profondità del cuore. Ciò che impedisce all'uomo di mettere in equilibrio l'amore di Dio e l'amore dell'uomo, amandoli contemporaneamente tutti e due, è in realtà una malattia, un indurimento del cuore che impedisce la compassione alla vista del dolore altrui. Così mentre il samaritano, vedendo la sofferenza di quell'uomo ne avverte anche la compassione, gli altri due ragionano solamente sul piano della legge e delle consuetudini, e scelgono in favore della legge, perché in realtà il loro cuore è incapace di compassione. Il sacerdote e il levita si presentano come uomini concentrati su se stessi, al punto da non avvertire il richiamo dei bisogni altrui. Allora una prima conclusione che possiamo trarre dall'insegnamento di Cristo è che i due amori, presentati dall'AT come separati, nella prospettiva cristiana non solo non possono separarsi, ma addirittura, quando si separano, muoiono tutti e due, spegnendosi nel legalismo. Il primato di Dio e il primato dell'uomo hanno quindi bisogno di essere innestati sullo stesso fulcro. E accanto a questa esigenza, che è di carattere esterno, ce n'è un'altra di carattere interno, che è la guarigione del cuore dal suo indurimento. Il testo del buon samaritano continua esprimendo un'ulteriore esigenza dell'amore cristiano, così come Gesù lo intende, e si potrebbe dire che l'esigenza di Gesù si presenta come un amore nel quale si fa spazio all'altro nella propria vita. Questo atteggiamento è esattamente il contrario di quello dell'amore naturale, nel quale noi intendiamo farci spazio nella vita degli altri, rimanendoci male se non lo troviamo. L'amore cristiano, ossia l'amore che esprime la carità teologale, e quindi l'essenza della santità, non è un amore che si apre un varco nella vita altrui, al contrario è un amore che fa spazio dentro di sé alla vita degli altri. Questo amore lo vediamo manifestato nei versetti successivi, in quella compassione che ferma il samaritano e lo fa chinare su quell'uomo. Si vede come l'esigenza di questo amore, che inizia con il sentimento della compassione, sia quella di fare spazio all'altro nella propria vita: il buon samaritano interrompe il suo viaggio, comincia a mettere tra parentesi le sue mete e i suoi obiettivi, fa dono all'altro del suo tempo.Proprio su questo punto, Cristo aggiunge una prospettiva nuova alla mentalità veterotestamentaria, che intende dare una risposta precisa alla domanda del dottore della legge: "Chi è il mio prossimo?". Si tratta di una domanda, la cui risposta tradizionale sarebbe stata: "Il tuo prossimo è colui che discende da Abramo; il tuo prossimo è colui che fa parte del tuo clan, colui che ha il tuo sangue, colui che è legato a te da una linea comune di stirpe e di parentela, l'israelita discendente dal tuo stesso capostipite è il tuo prossimo da amare. Gli altri sono incirconcisi estranei alle promesse". In sostanza, la risposta tradizionale, intendeva la categoria di prossimo come una categoria ferma, in cui l'altro è mio prossimo in forza della sua posizione verso di me. Il dottore della legge sa bene che la risposta è questa, ma ha intuito che nell'insegnamento di Gesù c'è qualcosa di nuovo; da qui la sua domanda, in fondo scontata per uno che conosce la dottrina rabbinica sulla Torah.Dopo aver narrato la parabola, Gesù rilancia al dottore della legge la domanda sul prossimo, ma in termini completamente diversi da quelli tradizionali: "Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". Va notato che la domanda non ruota intorno al malcapitato, ma intorno ai tre che attraversano la sua strada. L'uomo svenuto è un personaggio fermo, mentre i tre viaggiatori sono in movimento. La domanda è posta in relazione a coloro che sono in movimento. Il senso di questa sottolineatura possiamo comprenderlo così: la domanda di Gesù presuppone che non basta essere vicini per essere prossimo, né basta essere discendenti dallo stesso ceppo per essere prossimo; più precisamente, prossimo non si è, lo si diventa perché si vuole diventarlo. Dal punto di vista di Gesù, prossimo non è colui che è vicino a me, bensì colui al quale io mi faccio vicino. Esattamente come fa il samaritano. Egli si fa prossimo, ma avrebbe potuto decidere di non diventarlo. La risposta del dottore della legge deve perciò necessariamente escludere due persone che pure erano vicine all'uomo svenuto, il sacerdote e il levita; deve escluderle dalla risposta, comprendendo a questo punto che il prossimo nasce quando io lo faccio nascere, e che, di conseguenza, potrebbe avvenire di rimanere per una vita intera sotto lo stesso tetto con una determinata persona, senza mai diventare suo prossimo, qualora mancasse quel movimento di compassione che sta alla radice di qualunque avvicinamento personale.

 

Una rilettura ecclesiale

    Questa parabola ha anche un'altra possibile lettura, che potremmo definire "ecclesiale". In questa lettura il buon samaritano è figura di Cristo, che si china sull'umanità ferita e depredata dalla potenza del male. E' il cuore di Cristo la vera sorgente della compassione per il dolore umano. L'espressione: "Lo spogliarono, lo percossero" è indicativa dell'azione di satana, che attraverso il peccato deruba l'uomo di tutti i doni che Dio gli riversa in cuore. Cristo, nella veste di buon samaritano, si ferma e versa sulle piaghe dell'umanità olio e vino, ossia lo Spirito Santo e il proprio Sangue che guarisce tutte le ferite. Egli, però, non vuol fare questa opera di guarigione da solo, e associa a Sé la Chiesa. Il buon samaritano non si limita a soccorrere il malcapitato, ma lo conduce in una locanda, per essere curato. Lì c'è chi possa prendersi cura di lui. La locanda è simbolo della comunità cristiana, è il luogo di guarigione che Cristo ha stabilito per tutti quelli che sono oppressi e sofferenti, bisognosi di essere sollevati dalla mano del Pastore. Cristo, dopo aver consegnato la sofferenza umana alla comunità cristiana, che la guarirà con l'olio dello Spirito e con il vino del Sangue di Cristo, se ne va, continua il suo viaggio, promettendo al suo ritorno di dare la giusta ricompensa a coloro che per amore suo sanno rinunciare a se stessi: "Tutto quello che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno". E' la promessa del suo ritorno nell'ultimo giorno per dare a ciascuno secondo le sue opere.

 

L'icona dell'amore per Dio: l'ascolto

    Abbiamo già detto che l'evangelista Luca al quadro del buon samaritano, che personifica le esigenze concrete dell'amore verso il prossimo, aggiunge un secondo quadro, con l'intenzione di chiarire anche il senso dell'amore verso Dio. Occorre che ci soffermiamo un poco anche su questo secondo quadro, il cui personaggio chiave è Maria, la sorella di Marta.Questo episodio, in cui Gesù si ferma a casa di Marta e Maria, ci permette di ritrovare la stessa verità affermata all'inizio, quella cioè di un amore verso Dio e di un amore verso l'uomo che smettono di essere autentici quando si separano. La focalizzazione, però, qui è tutta sull'amore verso Dio. Infatti, Cristo entra nella casa di Marta e di Maria, viene accolto con onore e lì Egli si cala nel suo ruolo di Maestro, un ruolo compreso fino in fondo da Maria, che lascia tutto e si siede ai suoi piedi per ascoltare la sua Parola. Tale ruolo invece non è compreso da Marta, la quale ritiene che Cristo gradisca essere accolto con dei servizi quotidiani, utili e necessari. Il seguito del racconto chiarisce che dal punto di vista di Gesù, l'unico modo di accoglierlo degnamente è quello di riconoscerlo come Maestro. Il personaggio di Marta ci permette alcune riflessioni sul discepolato. Mentre Cristo sta parlando, Marta lo interrompe, per richiamare la sua attenzione sulla sorella: "Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Marta sta facendo a casa tante cose buone, tanti servizi utili, ma compie queste cose buone solo con i gesti, perché il suo cuore in realtà non è buono: si rivolge alla sorella accusandola di essere una perdigiorno e si rivolge a Cristo senza rispetto, interrompendo il Maestro mentre sta donando la sua Parola di vita. E' dunque possibile fare delle cose buone senza essere buoni; è possibile fare i gesti esterni della santità, senza essere santi. Si tratta allora di guarire interiormente dalla propria durezza di cuore. La figura di Marta è significativa anche perché contiene la risposta alla domanda su ciò che impedisce la guarigione interiore: Marta non vive il primato dell'ascolto e perciò anche le sue opere buone vengono inquinate da un cuore non risanato. Una persona guarita interiormente può amare davvero, ed è chiaro dal contesto prossimo che Marta, non avendo dato a Cristo il primo posto in senso assoluto, e non avendo posto la sua Parola al vertice di tutti i valori nel proprio cuore, si trova nella posizione sbagliata davanti a Dio. La conseguenza di questo disordine spirituale è che può fare tante cose buone, in quanto opere, ma il suo cuore non è guarito, tanto che accusa la sorella, ferendola in modo trasversale, e interrompendo il Maestro, come per dargli un suggerimento sulla giustizia, quasi che il suo bisogno di giustizia personale fosse più urgente di quello di Cristo. I due amori quindi in lei sono separati. Marta non ha saputo amare Cristo come Lui desidera essere amato, e la conseguenza è quella di non potere amare adeguatamente neppure il prossimo, pur sforzandosi di fare tante cose buone.