La Congregazione delle Suore Orsoline del S. Cuore di Gesù Agonizzante

RITIRO ANNUALE 2006

Padre Armando Genovese, mSC



28 agosto 2006

COMPRENSIONE

Saremmo tentati di considerare la comunità religiosa come una macchina le cui parti stanno l’una vicino all’altra, così da formare un tutto che scorre fluido, un po’ come una buona automobile; e invece la cosa è più complessa, ci sono singoli esseri, ognuno dei quali ha una qualifica particolare; ognuno il suo itinerario, le sue esperienze, le sue mète. Ognuno è un mondo a sé. Vero è che i singoli sono uniti l’un l’altro da rapporti molteplici: dalla nascita, dall’educazione, dall’amicizia, da vincoli professionali, ecc. Tuttavia ogni uomo ha il proprio centro, nel quale tiene unite le esperienze e le attività, e così si distingue dalle strutture generali. In ognuno operano inoltre energie ostili alla vita altrui, che rendono difficile il vivere insieme, o addirittura lo distruggono.

Che cosa si richiede allora affinché una vita in comune sia non soltanto possibile, ma feconda? A proposito di tale domanda si potrebbe rispondere con molte risposte; una suona: con il comprendere. Ma questo non è poco: che cosa significa comprendere? Quand’è che io comprendo? Quando io noto ciò che pensa l’altro; quando mi risulta chiaro perché egli si comporta in quel modo, perché vive così, perché fa così; perché è diventato quello che mi sta ora dinanzi.

Per capire meglio di che cosa si tratta, pensiamo un attimo agli altri esseri, che pure vivono in comunità, agli animali. Si capiscono gli uni gli altri? Sono legati tra di loro; dipendono l’uno dall’altro. Pensiamo ad uccelli che si accoppiano, nutrono e difendono i loro piccoli; li aiutano a farsi indipendenti. Ma, ripeto, si comprendono? Si potrebbe pensare di sì, perché ognuno si comporta in modo da favorire l’altro e la propria prole. Si aiutano l’un l’altro a vivere. Si potrebbe pensare che si comprendano, ma di comprensione non c’è traccia. Un dato sperimentale molto semplice lo dimostra: non appena i piccoli sono cresciuti i genitori diventano l’un l’altro estranei. Non esiste dunque fra gli animali una comprensione, ma esistono i due esseri viventi che vivono in coppia, e di nuovo la coppia e i piccoli che sono stati partoriti formano un gruppo vivente per la cui conservazione agiscono istinti, che una volta adempiuto il loro scopo, si estinguono. Anzi, proprio perché non si capiscono a vicenda, perché nel loro rapporto non esistono né dubbi né prove, tutto si svolge in modo così ben finalizzato e sicuro.

Oppure pensiamo ad animali che formano gruppi stabili, come le formiche o le api. Gruppi che consistono di individui innumerevoli, ciascuno dei quali adempie una funzione nel tutto. Si sfiorano a vicenda senza disturbarsi; di più, essi si aiutano a vicenda, si difendono a vicenda, fabbricano con armonia mirabile una configurazione di vita assai complicata: ma si comprendono a vicenda? Il loro stare insieme a volte viene chiamato stato: ma lo è veramente? Si dovrebbe supporre che in questo stato, almeno in determinate situazioni, si verificasse un processo cosciente da parte degli individui per inserirsi nell’ordinamento, e perciò anche una reciproca comprensione. Ma questo non avviene mai, e tutto il modello d’uno stato ad essi applicato è radicalmente falso.

Quand’è che possiamo parlare allora d’un vero comprendere? Quando il rapporto vitale in questione è formato da esseri, in ciascuno dei quali vive una interiorità che si vela per mezzo d’una esteriorità, ma che nello stesso tempo si esprime in essa e che perciò può essere percepita anche da un altro essere della stessa specie. Facciamo un esempio: c’è qualcuno che mi viene incontro per la strada, mi guarda, mi saluta: da tutto questo io vedo che la sua attenzione si rivolge a me, che entra in comunicazione con me. Dall’espressione del viso leggo che in questo momento è benevolo nei miei riguardi oppure prova avversione per me o si sente imbarazzato. Un altro mi spiega perché si è comportato in un certo modo in una particolare occasione: io sento le sue parole, mi si fa chiaro il significato di un’azione, ora so ciò che prima non potevo sapere. Questo e mille altri fatti del genere, che si verificano di continuo nella vita, ci ricordano che l’uomo porta in sé un mondo interiore, possiede atti, eventi, stati d’animo che dapprima sono nascosti ma che poi arrivano alla parola, si esprimono in parole, moti del volto, gesti, atteggiamenti e azioni, e possono così rendersi manifesti. Comprendere vuol dire allora leggere e percepire gesti esteriori, e da questi riuscire a scendere alle motivazioni interiori.

Da questo si deve pure dedurre che spesso l’esteriore può anche coprire l’interiore. Se uno è inquieto ma non lo vuol mostrare, si domina; blocca il gioco dei mezzi d’espressione, compone un viso tranquillo. I processi, gli stati e gli atti interiori stanno allora dietro quelli esteriori, o sotto o dentro di sé a seconda che si voglia esprimere o no il proprio cuore. In questo caso, che cosa significa comprendere? Si potrebbe parlare di comprensione, se il partner fosse capace di osservare l’espressione degli occhi o piccoli moti non del tutto controllati o qualche particolare dell’atteggiamento del corpo e riuscisse a vedere che cosa avviene e perché lo si vuole nascondere. Il comprendere potrebbe andare avanti ancora: notare che l’altro non solo nasconde il proprio sentimento, ma mostra qualcosa in lui di cui egli non ha coscienza affatto: che vuole ingannare, che finge amicizia; che simula interesse ma è indifferente. Allora comprendere sarebbe penetrare tutto questo complesso atteggiamento; notare che cosa c’è davvero nel cuore dell’uomo.

Comprendere significa allora vedere, udire, sentire che dietro un sentimento esibito, dietro un atteggiamento espresso, si nasconde qualcos’altro, e forse dietro quest’altro dell’altro ancora. Ma comprendere non è solo questo: quando per esempio uno ha in un determinato momento uno scatto di intolleranza, comprensione significa vedere come tale sentimento si inserisca nella totalità dell’uomo. Un determinato comportamento dice, nel caso di uno, tutt’altra cosa che nel caso di un altro. Quando una persona timida diventa brusca perché vuole coprire il proprio intimo, è tutt’altra cosa di quando uno sfacciato diventa violento per imporre la propria volontà. Chi realmente comprende vede dunque anche il contesto in cui gesti, parole, atteggiamenti rivelano il loro significato.

E non soltanto il contesto momentaneo dell’indole e del temperamento, ma anche quello del tempo. Perché quest’individuo è così timoroso? Perché un giorno gli è stata usata violenza... Perché è così diffidente? Perché varie volte è stato raggirato. Da dove viene quel suo sguardo così triste? Perché raramente è stato capito nella sua vita e desidera essere compreso. Comprendere perciò significa riconoscere che quello che lui è ora, scaturisce dall’insieme della sua storia.

Tutto questo non è facile, e tuttavia stiamo ancora parlando di cose semplici. Come sarà quando si avrà a che fare con caratteri fuori del normale, con situazioni patologiche, con destini strani, davanti a cui il potere di chi deve vedere, udire e sentire bisogna che diventi addirittura creativo per poter afferrare e penetrare l’aspetto eccezionale di simili realtà? Che cosa ci vuole allora per comprendere veramente?

Ci vuole parecchio, però esiste una capacità dello spirito: un acume dello sguardo, una finezza del sentimento, una disposizione a vibrare in consonanza, in grado di gettar ponti sulla estraneità che divide gli uomini. Sono doti importanti che possono creare comunione fra molti individui soli. Queste qualità possono toccare elevati livelli e fare di colui che le possiede un artista, un leader, un saggio; oppure, certo, anche uno sfruttatore delle debolezze altrui, un maligno, una carogna.

Inoltre ci vuole esperienza. Questo non vuol dire soltanto che una cosa mi debba capitare una volta e poi un’altra volta e molte altre volte, ma che io sia capace di imparare da tutto ciò; che io acquisisca dalle mie esperienze uno sguardo più perspicace, una sensibilità più raffinata, una capacità di adeguarmi rapidamente alla situazione. Esperienza significa pure che la memoria, davanti ai fenomeni degli altri, si ricordi di quanto di analogo si è verificato dentro di noi e proponga una soluzione.

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Che cosa occorre ancora per essere comprensivi? Proviamo a porre il problema al contrario: perché c’è così poca comprensione nel mondo? Perché tanti si incontrano di continuo e non si comprendono affatto? Le ragioni sono parecchie, ma vogliamo evidenziarne una. è perché noi dividiamo subito le persone in persone che ci piacciono e in persone che non ci piacciono. E così, col nostro egoismo, cataloghiamo le persone in due reparti e restano così classificate una volta per sempre. La comprensione comincia quando io esco dal rapporto simpatia‑antipatia e cerco di far sì che l’altro si affermi e si valorizzi per quello che è; quando non lo catalogo subito nelle mie inclinazioni e repulsioni, nei miei scopi e nei miei timori, ma dico: Tu hai diritto di essere; sii come sei. Tu sei te stesso come io sono me stesso. Allora lo sguardo diviene libero, e la comprensione può cominciare.

Come si verifica una cosa simile in un’amicizia? Un’amicizia può fiorire soltanto quando l’uno non giudica l’altro sulla base di quello che gli serve, ma gli consente semplicemente di essere quello che è. Quando una persona sta di fronte a un’altra nel rispetto e nella libertà. Solo allora lo sguardo si apre e capisce. Oppure in una comunità: se l’uno pretende dall’altro che sia come lui lo vuole avere, allora i due potranno rimanere insieme per trent’anni e non capirsi; o forse anche peggio: fraintendersi l’un l’altro con un’ostinazione che a un terzo riesce del tutto incomprensibile, e ognuno dei due accuserà l’altro della colpa che lui commette.

L’inizio di ogni comprensione sta nel fatto che l’uno consenta all’altro la libertà d’essere quello che è; che non lo consideri con l’occhio dell’egoismo prescrivendogli dalla prospettiva del proprio interesse ciò che ha da essere, ma con l’occhio della libertà, la quale dice anzitutto: sii quello che sei; e solo dopo: ed ora vorrei sapere come sei e perché. Ogni comprensione comincia con questo atteggiamento. Presuppone che si consenta all’altro il suo diritto a se stesso: che non lo si guardi come un qualcosa di cui ci si serve, ma come un essere che possiede un centro originario, un suo ordine di vita, desideri e diritti propri. Solo dopo ci si può chiedere con qualche prospettiva di successo: Perché fa così? Quali esperienze ha avute? Quale storia sta dietro il suo comportamento? La durezza che egli mostra è veramente violenza, o soltanto una specie di pudore che cela ciò che ha dentro? La sua impazienza è davvero impazienza, o non forse la condizione d’un uomo ferito da esperienze anteriori? E così via con le domande, che poi trovano anche le vere risposte, le risposte di chi ha compreso.

Al limite, si potrebbe anche dire che si arriva a comprendere se stessi solo quando ci si considera in distacco dal proprio io. Per esempio, un medico potrebbe provare grande giovamento se si domandasse d’un tratto: Come mi vedono i miei pazienti? Dunque non: come vorrei che mi vedessero, ma: come mi vedono di fatto e dal loro punto di vista? E non gli ammiratori, ma gli indifferenti, i poveri, quelli che soffrono gravemente? Allora acquisterebbe di colpo uno sguardo straordinariamente limpido quanto a se stesso, e ciò gli sarebbe assai utile anche come medico. Oppure un insegnante che si interrogasse qualche volta così: Come mi vedono i miei allievi? I quali alunni non sono quelle creature stupide e ribelli che lui tanto spesso crede siano, ma che hanno tante volte occhi acuti e buon giudizio. In modo del tutto concreto potrebbe domandarsi: come mi vedono costoro non appena entro in classe? Se li chiamo per nome? Quando uno di loro ha fatto un pessimo esame? Quando c’è confusione in classe? è possibile che allora si rende conto perché non ci sia tanta simpatia per lui. O nel matrimonio il marito potrebbe chiedersi: Come mi vede mia moglie? In questa o in quella o in quell’altra circostanza? E viceversa lei: Come mi vede mio marito? Non come io vorrei che lui mi vedesse, ma: Come mi vede in realtà? Come sente da parte sua la mia voce, le mie pretese, il mio modo di fare? Allora tutt’e due potrebbero d’un colpo veder chiaro se il loro amore è autentico, e quando si è insinuata l’insincerità, o perfino è cominciata una certa crudeltà. Nel ministero un prete potrebbe domandarsi: Come mi vedono i miei fedeli? Riesco a trasmettere la premura e la tenerezza di Cristo? Abito nel cuore del Padre? E i miei fedeli riescono a percepirlo? O si accorgono soltanto dei miei rimproveri, come Giona a Ninive?

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Arrivati a questo punto proviamo a guardarci indietro. Dalla gioia che Dio ha per ognuno di noi; dalla bontà con cui ci ha collocati nella libertà; dalla sua limpida comprensione che non va indagando l’essere delle cose, ma fa sì che esso esista: da tutto ciò dovremmo imparare qualcosa, perché ci ha donato d’essere sua immagine. Quale potrebbe essere l’attuazione più pura di quanto va sotto il nome di comunità? Quando l’uno può dire dell’altro: Nel suo sguardo io sono interamente quello che sono. Il suo sguardo non mi riduce; anzi, mi rende quello che sono e in esso io divento del tutto me stesso.