La Congregazione delle Suore Orsoline del S. Cuore di Gesù Agonizzante

RITIRO ANNUALE 2006

Padre Armando Genovese, mSC



27 agosto 2006

FEDELTÀ

Anche la parola fedeltà sembra parola di altri tempi. Probabilmente per noi non ha più un suono genuino: è troppo grande, troppo impegnativa e, di fronte alla realtà confusa della nostra vita, troppo semplice. Un tempo intorno alla fedeltà c’era troppa enfasi, troppa retorica ufficiale, troppa insincerità. Si pensi agli anni terribili della seconda guerra mondiale quando, con il nome di fedeltà, veniva chiesta un’adesione assoluta, una disponibilità a ogni genere di sacrifici, e al tempo stesso tale fedeltà veniva tradita con atrocità da fare inorridire. Anche nelle nostre comunità non sempre la parola fedeltà ha avuto connotazioni positive, qualificata com’era da un’obbedienza acritica ad obiettivi non del tutto cristallini. E comunque resta sempre vero che la nostra vita si fonda sulla fedeltà.

Qual è il significato della fedeltà? Potremmo descriverla come una forza che vince il tempo. Cerchiamo di farci un’idea: immaginiamo che un uomo e una donna si sono incontrati, hanno cominciato ad amarsi e cominciano ad indirizzarsi verso il matrimonio. Agli inizi, si sa, è tutto bello, straordinario, pieno di vita, di luce, di calore: è così, sarà sempre così, questa è l’affermazione più volte ripetuta. Sono sentimenti di simpatia, accordo nel sentire le cose, identiche preferenze ed inclinazioni, e via dicendo. Questi sentimenti sembrerebbero poter durare per tutta la vita. Ma non è così, lo sappiamo bene, si attenuano presto; emergono differenze inevitabili in persone differenti. E giunge il tempo per la vera fedeltà che consiste nel fatto che ognuno dei due si fa consapevole del fatto che l’altro ha fiducia: egli si abbandona a me. Noi ci siamo legati con un vincolo che incide sulla nostra vita. Ciò che lo regge dev’essere ciò che c’è di meglio in noi, il centro della nostra umanità, la persona e la sua capacità di garanzia. E allora comincia il superamento: esistere in ordine all’altro e conservarsi per lui; ma non per possederlo e dominarlo, ma per conservare la vita fondata sul vincolo e per renderla feconda. Sapersi responsabile per l’altro; non prescrivergli come debba comportarsi, ma consentirgli la libertà di essere ciò che è; aiutarlo a diventare ciò che deve diventare nel disegno del Signore; rassicurarlo sempre daccapo e mettersi a sua disposizione.

C’è da considerare inoltre un’altra cosa. Quando due persone si uniscono, ognuno arriva con un determinato carattere. Ora vivere significa appunto che si cresce e che perciò si cambia. Certe proprietà emergono quando si è bambini, altre quando si è maturi, altre ancora soltanto negli anni tardi. Può così succedere che un giorno uno dei due, sconvolto, dica all’altro: Non ti conosco più! Tu non eri così quando mi sono innamorato di te! Può succedere che chi parla in questo modo si senta come abbandonato e ingannato, come se l’altra persona si sia contraffatta, mentre in realtà è stata solo un’evoluzione che ha portato alla luce i suoi aspetti nuovi. E questo diventa il tempo della fedeltà, della vittoria sul cambiamento e della perseveranza. Ma non in maniera rigida, bensì in modo che l’uno accetti sempre di nuovo l’altro e vi si adegui. Questo può essere difficile, in certe circostanze difficilissimo; il sentimento deluso può insorgere. Ma nella misura che una simile fedeltà viene praticata essa aumenta in profondità e crea ciò che è realmente un matrimonio.

Andiamo avanti. Fedeltà significa rimanere fermi in una responsabilità a dispetto delle perdite e dei pericoli. Un tale, per esempio, ha assunto determinati impegni. Ha riflettuto su un affare, l’ha riconosciuto giusto, e ha preso un impegno con un altro, e l’altro ormai conta su di lui. Ma le circostanze nel frattempo sono mutate e si profilano svantaggi. Fedeltà significa stare alla parola, prendere su di sé il danno che nel caso inverso si sarebbe addossato all’altro. Oppure: un tale è afferrato da un’idea, ha riconosciuto un’azione come necessaria e vi si è impegnato; ma ecco subito, come è naturale, difficoltà in vista. Fedeltà significa tener fermo e lottare. Si può trattare di rischi attinenti alla professione. Un medico sente che il suo lavoro logora le sue forze, forse mina la sua vita. Un assistente sociale ha un servizio duro, forse più duro ancora in quanto altri si danno buon tempo. La fedeltà dice: non mollare. Un prete si sente sconfortato dopo aver dato anima e corpo per gli altri, e ancora si fa vicino l’angelo che gli dice: Non temere.

Fedeltà significa anzitutto conoscenza: ho capito che questo è così e così e lo stabilisco, lo rendo stabile; non ho neppure bisogno di appoggiare ulteriormente la cosa, di metterla d’accordo con le opinioni correnti, di vedere se dà vantaggi, o meno. La forza con cui tengo fermo ciò che ho affermato, attraverso tempi e situazioni varie in cui i motivi risultano pallidi o insicuri, è la fedeltà.

La fedeltà supera mutamenti, svantaggi e pericoli. Non in forza d’un potere di resistenza dovuto al temperamento: questo può avvenire, e fortunato chi possiede tale temperamento. Ma la fedeltà è di più, vale a dire la fermezza che emerge dal fatto che l’uomo ha assunto qualcosa nella propria responsabilità e se ne fa garante. Essa vince i cambiamenti, i danni e le minacce della vita con la forza della coscienza. Quando s’incontra un uomo simile ci si sente pieni di fiducia.

* * *

Non possiamo inoltre dimenticare un’altra specie di fedeltà: quella verso Dio. Che cosa succede quando un uomo si decide con maturità verso la fede? Anzitutto influisce tutto ciò che egli ha preso e assimilato dai genitori, dall’atmosfera della sua casa, dagli insegnamenti, dalla vita della Chiesa e via dicendo. Magari ha avuto qualche esperienza religiosa: può darsi che abbia fatto esperienza, in tempi di sincera preghiera, di una realtà sacra e serena che lo reggeva dentro. Oppure ha sperimentato in determinate occasioni ciò che normalmente chiamiamo Provvidenza. Le risposte cristiane alle domande dell’esistenza lo hanno convinto; ha notato che, seguendo quelle indicazioni, diventava migliore, più sicuro e più ricco interiormente. Basandosi su questo, si è deciso e ha dato a Dio la sua fede, gli ha detto di . Questa prima religiosità è bella, generosa e piena della coscienza d’un profondo significato. Ma con il tempo questi sentimenti possono pure alterarsi, o scomparire del tutto.

Svanisce, ad esempio, la sensazione della vicinanza di Dio, e sembra di trovarsi in un infinito vuoto religioso. Oppure si constata quanta parte di umano aderisce al mondo religioso. Oppure intervengono fatti che egli non è in grado di porre in accordo con l’idea di provvidenza. Oppure le idee del suo tempo si allontanano dalla fede, cosicché questa risulta come qualcosa di sorpassato. Allora la fede perde gli appoggi che aveva nel sentimento, nelle persone del suo ambiente, e gli insegnamenti della Rivelazione, che all’inizio gli sembravano stupendi e pieni di luce, diventano pallidi. E lo assale il dubbio d’essersi ingannato, d’essere caduto in balìa di qualche falso idealismo. Gli potrà sembrare in occasioni simili d’essere stato uno stupido a credere. è questo il tempo per la fedeltà. Grazie ad essa può dire: io resto fermo. Quando mi decisi per la fede, ciò che allora incise in me non fu un’inclinazione sentimentale o l’attrattiva di una bella teoria, ma fu un’azione del mio centro, della persona e della sua serietà. Quando dico Amen!, io dico proprio questo: Sicuro! è proprio così! Ecco che allora la fede acquista un significato nuovo: è quell’azione in cui l’uomo supera il tempo della lontananza e del silenzio di Dio. Quando Dio fa sentire la sua prossimità, quando la sua parola è una cosa viva, non è difficile essere certi della sua realtà; allora è gioia credere. Ma quando Egli si nasconde, non si sente, la Parola santa non parla, allora è difficile. E quello è il tempo della vera fede.

* * *

La fedeltà è ciò che sopravvive al tempo. Ha in sé qualcosa dell’eternità. E, visto che si parla di eternità, ci si può domandare se si può parlare di fedeltà anche riguardo a Dio stesso. La domanda ci rinvia a cose profonde, da raccogliere nel cuore. Quando Dio ha creato il mondo ha fatto le cose in grande. Le conoscenze scientifiche degli ultimi decenni ci hanno reso consapevoli in maniera sconvolgente della grandezza del mondo. Grandezza nel grande, ma anche grandezza nel piccolo, se così si può dire. Il pensiero si perde, il mondo è più grande del nostro pensiero; ma di fronte a Dio è piccolo.

Secondo un mito indiano, il dio Shiva ha creato il mondo in un impeto di gioia creatrice, ma poi ne ha avuto fastidio, lo ha ridotto in frantumi e ne ha creato un altro, e dopo questo ancora un altro e così via. Questo è un dio senza alcuna fedeltà verso la sua opera. Sarebbe terribile trovarsi nelle mani d’un dio simile! Ma non è così Colui che si è rivelato a noi, Dio tiene ferma la sua opera. Tiene il mondo nell’essere; in ogni momento il mondo esiste grazie alla sua fedeltà.

A questa fedeltà di Dio si risponde con l’unica fedeltà che viene dalla consapevolezza di S. Paolo: «Questo è il tempo favorevole, questo il giorno della salvezza!» (2Cor 6,2), che risuona profondo nelle nostre coscienze dal momento in cui abbiamo cominciato queste nostre riflessioni: cogliere l’oggi di Dio nel nostro oggi, facendo obbedienza alla Parola che oggi risuona. Il nostro rapporto con il tempo, con Chrónos tiranno che divora i suoi figli, viene così trasformato per assumere dei connotati precisi: si tratta di saper giudicare il tempo (Lc 12,56), di «discernere i segni dei tempi» (Mt 16,3) per giungere a cogliere «il tempo della visita di Dio» (Lc 19,44). Il credente sa che i suoi tempi sono nelle mani di Dio: «Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono i miei giorni» (Sal 31 [30], 15-16). È l’atteggiamento fondamentale: i nostri giorni infatti non ci appartengono, non sono di nostra proprietà. I tempi sono di Dio e per questo nei Salmi l’orante chiede a Dio: «Rivelami, Signore, la mia fine; quale sia la misura dei miei giorni e saprò quanto è breve la mia vita» (Sal 39 [38], 5) e invoca: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal 90 [89], 12). La sapienza del credente consiste in questo saper contare i propri giorni, saperli leggere come tempo favorevole, come oggi di Dio che irrompe nel proprio oggi.

Il tempo del cristiano è tempo di fedeltà. Anche dopo la vittoria di Cristo nella resurrezione, resta ancora operante l’influsso del «dio di questo mondo» (2Cor 4,4), sicché questa fedeltà è minacciata. Il tempo del cristiano rimane tempo di esilio, di pellegrinaggio, in attesa del momento in cui Dio sarà tutto in tutti. Il cristiano infatti sa ‑e non ci si stancherà mai di ripeterlo in un’epoca che non ha più il coraggio di parlare né di perseveranza né tanto meno di eternità, in un’epoca appiattita sull’immediato e l’attualità‑ il cristiano sa che il tempo è aperto all’eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8). Tutti i nostri giorni sono attesa fedele di questo incontro con il Dio che viene.

* * *

Fedeltà significa naturalmente memoria. La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’amore, della vita comune, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, memoria. Se uno non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, è uno «smemorato», ed è difficile affrontare, far riflettere una persona senza memoria.

Che cos’è la giustizia senza la fedeltà di uomini giusti? Che cos’è la libertà senza la fedeltà di uomini liberi? Non esiste valore né virtù senza fedeltà! Così come, senza fedeltà, non esiste storia comune, fatta insieme. Oggi, nel tempo frantumato e senza vincoli, queste realtà si configurano come una sfida per l’uomo e, in particolare, per il cristiano. Quest’ultimo, infatti, sa bene che il suo Dio è il Dio fedele, che ha manifestato la sua fedeltà nel Figlio Gesù Cristo, «l’Amen, il Testimone fedele e verace» (Ap 3,14) in cui «tutte le promesse di Dio sono diventate sì» (2Cor 1,20).

Queste dimensioni sono dunque attinenti al carattere storico, temporale, relazionale, incarnato della fede cristiana, e la delineano come responsabilità storica. La fede esce dall’astrattezza quando non si limita a segnare una stagione o un’ora della vita dell’uomo, ma plasma l’arco della sua intera esistenza, fino alla morte. In questa impresa il cristiano sa che la sua fedeltà è sostenuta dalla fedeltà di Dio all’alleanza, che nella storia di salvezza si è configurata come fedeltà all’infedele, come perdono, come assunzione della situazione di peccato, di miseria e di morte dell’uomo nell’incarnazione e nell’evento pasquale. La fedeltà di Dio verso l’uomo è cioè diventata responsabilità illimitata nei confronti dell’uomo stesso. E questo indica che le dimensioni della fedeltà e della perseveranza pongono all’uomo la questione ancor più radicale della responsabilità. L’irresponsabile, così come il narcisista, non sarà mai fedele. Anche perché la fedeltà è sempre fedeltà a un «tu», a una persona amata o a una causa amata come un «tu»: non ogni fedeltà è autentica! Anche il rancore, a suo modo, è una forma di fedeltà, ma nello spazio dell’odio. La fedeltà di cui parliamo avviene nell’amore, si accompagna alla gratitudine, comporta la capacità di resistere nelle contraddizioni.

È una lotta attiva la cui arena è il cuore umano: è nel cuore che si gioca la fedeltà! Questo significa che essa è vivibile solo a misura della propria libertà interiore, della propria maturità umana e del proprio amore! Le infedeltà, gli abbandoni, le rotture di impegni assunti e di relazioni a cui ci si era impegnati, situazioni tutte che spesso incontriamo nel nostro quotidiano, rientrano spesso in questo ordine di pensieri. E dicono come sia limitante ridurre il problema della fedeltà e della perseveranza, e quindi del loro contrario, alla sola dimensione giuridica, di una legge da osservare: vi è sempre in gioco il mistero di una persona. Il gesto di rottura rivela una situazione del cuore, cioè della persona; anzi, in profondità, la dimensione dell’infedeltà non è estranea alla nostra stessa fedeltà, così come l’incredulità attraversa il cuore del credente stesso. Che altro è la Bibbia se non la testimonianza della tenacissima e ostinata fedeltà di Israele a voler narrare la storia della propria infedeltà di fronte alla fedeltà di Dio? Ma come riconoscere la propria fedeltà se non a partire dalla fede in Colui che è fedele? In questo senso il cristiano «fedele» è colui che è capace di memoria di Dio, che ricorda l’agire del Signore: la memoria sempre rinnovata della fedeltà divina è ciò che può suscitare e sostenere la fedeltà del credente nel momento stesso in cui gli rivela la propria infedeltà. E questo è esattamente ciò che, al cuore della vita della Chiesa, avviene nell’Eucaristia, che è per sua natura propria anamnesi, memoria, ricordo.