La Congregazione delle Suore Orsoline del S. Cuore di Gesù Agonizzante

RITIRO ANNUALE 2006

Padre Armando Genovese, mSC



26 agosto 2006

ASCESI

Normalmente, quando si parla di ascesi, le reazioni sono spaventate: sembra che il termine indichi pratiche fisiche, assurde, di altri tempi, indegne di essere nominate, quasi contro natura. L’ascesi è una specie di cosa medievale, e noi che apparteniamo al mondo moderno non abbiamo bisogno di queste assurdità antiche (e così facendo facciamo passare anche l’idea che noi siamo migliori degli antichi, cosa abbastanza difficile da dimostrare…).

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Christiani fiunt, non nascuntur, ricordava Tertulliano a quelli che si accostavano al Battesimo e che pensavano, con questo, di essere arrivati alla vetta dell’impegno cristiano: si diventa cristiani, e questo «divenire» è lo spazio in cui si inserisce l’ascesi cristiana. Ascesi, dicevamo,  è oggi parola sospetta, se non del tutto assurda e incomprensibile per molti uomini e, ciò che più è significativo, anche per un gran numero di cristiani. In realtà «ascesi», termine che deriva dal greco askeîn, «esercitare», «praticare», indica anzitutto l’applicazione metodica, l’esercizio ripetuto, lo sforzo per acquisire un’abilità e una competenza specifica: l’atleta, l’artista, il soldato devono «allenarsi», provare e riprovare movimenti e gesti per poter pervenire a prestazioni elevate. L’ascesi perciò è anzitutto una necessità umana: la stessa crescita dell’uomo, la sua umanizzazione, esige un corrispondere interiore alla crescita anagrafica. Esige un dire dei «no» per poter dire dei «sì»: «Quando ero bambino, parlavo e pensavo da bambino ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato» scrive san Paolo (1Cor 13,11).

La vita cristiana poi, che è rinascita a una vita nuova, a una vita «in Cristo», che è adattamento della propria vita alla vita di Dio, richiede l’assunzione di capacità «non naturali» come la preghiera e l’amore del nemico: e questo non è possibile senza un’applicazione costante, un esercizio, una pratica. Purtroppo il mito della spontaneità, che domina ancora in questa fase di adolescenze interminabili e che porta a contrapporre esercizio e autenticità, si rivela un ostacolo determinante alla maturazione umana delle persone e alla comprensione dell’essenzialità dell’ascesi per una crescita spirituale.

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La critica all’ascesi nasce dal presupposto che dentro di noi esiste un istinto e che va sempre assecondato. Anzi, ancora di più, da un falso concetto dello sviluppo della vita. L’idea più o meno è questa: come si sviluppa la vita? come cresce un animale sano? Risposta: seguendo i propri istinti. L’istinto serve perché nulla vada fuori strada. Quando l’animale è sazio smette di mangiare. Quando ha riposato abbastanza non se ne sta più disteso a poltrire. Quando sente l’istinto della riproduzione, lo soddisfa; finito il tempo, tace l’istinto. E sembrerebbe che questo si possa applicare anche all’uomo, però nell’uomo c’è qualcosa in più che non esiste nel semplice animale, e bisogna essere realmente ciechi per non rendersene conto: lo spirito. E lo spirito trasferisce a un altro livello quello che è per natura. Nello spazio dello spirito l’istinto acquista un nuovo significato e un nuovo modo di funzionare. Perciò, è assurdo voler giudicare l’uomo soltanto dall’istinto, come fosse un animale.

Per non lasciare il discorso troppo per aria, facciamo qualche esempio. Che cos’è che lo spirito produce nell’istinto dell’uomo? Nell’impulso al nutrimento, alla sessualità, all’attività, al riposo, alla comodità? Anzitutto qualcosa di sorprendente: lo intensifica. Nessun animale asseconda l’istinto nutritivo come l’uomo, che riesce a fare del piacere uno scopo a sé. In nessun animale l’istinto sessuale tocca gli eccessi e l’arbitrio a cui arriva l’uomo. Nessun animale ha il gusto di uccidere che ha l’uomo, la cui capacità di distruzione non ha riscontri nel regno animale.

Tutti gli istinti nell’uomo lavorano in modo diverso che nell’animale. Nell’uomo godono di una libertà del tutto particolare, per cui possono finire la loro funzione biologica e diventare senza regola. Il concetto del viversi è un falso concetto: l’animale si vive, ma non l’uomo. Lo spirito dà all’istinto un significato nuovo: gli dà profondità, carattere, bellezza. Lo trasferisce dall’automatismo della natura, in cui le cose vanno così e non possono andare diversamente, alla libertà dell’uomo, padrone di se stesso e della sua vita. Lo spirito crea un’altezza al di sopra dell’istinto, e perciò è senza senso per noi uomini cercare nell’animale il criterio di giudizio per la nostra vita. Ora, ascesi vuol dire che l’uomo si decide a vivere da uomo; e da questo nasce una necessità che l’animale non ha, quella di contenere l’istinto in un ordine liberamente voluto e di vincere l’inclinazione all’eccesso o alla deviazione.

Qui non si sta affermando che gli istinti come tali siano cattivi. Per carità! Appartengono alla natura dell’uomo e agiscono a tutti i livelli. Indebolirli vorrebbe dire indebolire la vita stessa; e questo non sarebbe giusto, perché la vita è buona! Quel che vogliamo dire, piuttosto, è che essi vanno ricondotti in un ordine appropriato, un ordine che si definisce a seconda dei vari punti di vista: esigenze di salute, riguardi per gli altri, doveri della professione e del lavoro. E siccome quest’ordine non viene fuori da sé, occorre esercitarsi: la parola greca áskesis significa appunto esercizio, esercizio di giusta condotta di vita.

Un’altra cosa va tenuta presente. Nella nostra vita c’è una gerarchia di valori: ci sono valori nella vita quotidiana, come quelli che appartengono alla vita fisica (dormire, mangiare, lavarsi, ecc.); più in alto ci sono i valori della professione e del lavoro; più in alto ancora quelli delle relazioni personali, della comunità religiosa e delle creazioni spirituali e culturali; infine quelli che si attuano nel proprio rapporto immediato con Dio. è chiaro che benché sia importante mangiare, potrà capitarmi di saltare un pasto per aiutare un confratello o incontrare un amico che desidera parlare, e questa è ascesi; o di rimanere una volta a casa per leggere un libro, e non andare a vedere la partita con gli amici; o di decidermi a stare con il Signore e di non perdere tempo di fronte all’ennesimo insulso programma televisivo. Tutto questo è ascesi.

Ma, a parte tutti questi esempi, ognuno di noi sa quanto la nostra natura sia debole, e quanto sia necessario imporsi superamenti volontari, non richiesti da finalità immediate: si tratta di un esercizio della libertà, libertà che consiste appunto nell’essere padroni di se stessi, dei propri stimoli e dei propri stati d’animo. Paradossalmente, quella che potrebbe sembrare libertà, quando ci si lascia guidare completamente dagli istinti, è schiavitù, e la peggiore delle schiavitù.

Di per sé, gli istinti si presentano con una tale forza elementare che quelli spirituali vengono facilmente dimenticati. Ma in realtà questi, visti nella totalità dell’uomo, sono ancora più decisivi. La costruzione della personalità, la sua affermazione nel mondo, il suo agire e il suo creare: tutto ciò si regge su istinti spirituali. Esiste, per esempio, un impulso verso l’affermazione di sé, verso il potere in ogni sua forma. Esiste un impulso verso la compagnia e la comunità, verso la libertà e la formazione personale. Esiste il desiderio del sapere e del creare artistico, e via dicendo. Tutti questi istinti hanno la loro importanza in quanto spinte su cui si regge l’autoaffermazione e l’autoespansione dell’uomo. Ma essi hanno anche la tendenza a spingersi oltre misura, ad agire in modo da turbare o distruggere. Perciò si rende di continuo necessaria una disciplina i cui punti di vista sono definiti dall’etica e dalla saggezza, che noi chiamiamo ascesi.

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Ma lasciamo stare le tesi generali e guardiamo alla realtà. Pensiamo, per esempio, a un’amicizia. Due persone si sono conosciute e hanno trovato un’affinità. Hanno scoperto armonie reciproche nelle loro opinioni e nei loro gusti, si è sviluppata una simpatia e ciascuno dei due ormai ha fiducia nell’altro. Pensano che il loro legame sia sicuro e lo vivono senza preoccuparsi ulteriormente. Ma in loro due ci sono, com’è naturale, anche diversità, e queste a poco a poco si fanno sentire. Nascono malintesi, contrarietà, tensioni. Nessuno dei due cerca i motivi di tutto ciò là dove realmente esistono, cioè nella propria autosicurezza e trascuratezza, e di lì a poco ciascuno sente che l’altro gli dà ai nervi. La calma fiducia di prima sparisce, e piano piano tutto si disgrega. Se un’amicizia deve durare, bisogna vigilare. Ci dev’essere qualcosa che s’incarica di custodirla. Ognuno dei due deve consentire all’altro lo spazio per essere quello che è; ognuno farsi consapevole dei propri difetti e guardare a quelli dell’altro con gli occhi dell’amicizia. Volere questo e sostenerlo contro la suscettibilità, la pigrizia, l’angustia della propria natura, è ascesi.

Perché tanti matrimoni diventano opachi e vuoti? Perché ognuno dei coniugi è dominato dall’idea fondamentale che il fine del matrimonio sia la felicità. Ma che cos’è la felicità? E come si fa a basare la propria vita su qualcosa che è, di per sé, un po’ indefinibile e incerto? In realtà, matrimonio significa stare insieme nell’esistenza, è un reciproco aiuto o fedeltà. Matrimonio significa che l’uno porta il peso dell’altro, come dice S. Paolo [Gal 6, 2]. Perciò lo spirito deve essere vigile. Sempre di nuovo l’uno deve accettare l’altro così come è; deve rinunciare a ciò che non può essere. Deve lasciar perdere quella retorica falsa e bugiarda propria di letteratura melensa, che distrugge la realtà del matrimonio, e sapere che solo dopo l’innamo­ramento comincia in assoluto quello che è il compito dell’amore. Che un vero matrimonio può vivere soltanto con l’autodisciplina e il superamento. Allora diventa autentico e capace di generare la vita e di avviarla nel mondo. E questa pure è ascesi.

Qualcuno comincia un’impresa, un lavoro o qualche altra cosa che ha a che fare con una professione. Poniamo il caso migliore: che costui cioè fa una professione che gli si addice; che gli è consentito di fare ciò per cui è nato e che lo fa volentieri. Costui dapprima trova gioia in quello che fa e impegna tutte le sue forze. Però, dopo qualche tempo, la tensione verso questo impegno si allenta, le motivazioni diminuiscono, e lo fanno tanto più improvvisamente quanto più impetuoso era stato l’inizio. Tuttavia, i compiti continuano. Che cosa sarà di essi se ciò che regge il tutto non è che il vivere totalmente se stessi, il piacere del lavoro, il gusto del successo? Ne segue anzitutto indifferenza, ma poi subito disgusto e alla fine tutto precipita.

Il mio fondatore esprimeva questa consapevolezza in una lettera al P. Piperon, datata 30 marzo 1887: «Non meravigliamoci delle nostre imperfezioni religiose. Una quercia richiede molti anni per il suo pieno sviluppo. È già tanto se percepiamo ciò che ci manca. Con il tempo, anche noi arriveremo. Considero una grande benedizione  il fatto che la nostra vita sia tracciata, e noi conosciamo molto bene il cammino che dobbiamo seguire».

Nessuna opera fiorisce se non esiste a suo riguardo una responsabilità, sulla cui base l’uomo compie il suo lavoro nella fedeltà e nel superamento di sé.

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La vita dell’uomo ha molti livelli. Ce n’è uno superficiale, un altro più profondo, uno essenziale. Ciascuno strato ha le proprie necessità e i propri valori. Evidentemente non si può avere tutto in una volta. Bisogna scegliere; lasciar perdere una cosa perché un’altra possa essere.

Cerchiamo di fare ancora esempi concreti. Se io vado tutti i giorni al cinema, dopo un po’ di tempo non riuscirò più a percepire in esso qualcosa di particolare, e devo domandarmi se è proprio quello che devo fare dopo una giornata che mi ha consumato, oppure concedermi un attimo di riposo. Chi legge molta inutile cianfrusaglia perde la sensibilità per le letture autentiche, e allora deve chiarirsi che cosa è più importante per lui. Chi è di continuo in mezzo alla gente e parla e discute, perde la capacità di essere con se stesso e di tutto ciò che là solo si rivela. Se l’uomo vuole ricavare dalla vita che dura così pochi, così veloci anni, le cose preziose che essa può dare, deve sapere che ciò è possibile solo se rinuncia a ciò che vale di meno per avere ciò che vale di più.

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Certo, deve essere chiaro che l’ascesi cristiana resta sempre un mezzo ordinato all’unico fine da conseguire: l’amore per il Signore e per il prossimo. Non è possibile senza la continua esperienza di cadute, di fallimenti, di «peccati», che la rendono sempre assolutamente indissociabile dalla grazia. La storia cristiana ha conosciuto molte deviazioni ed eccessi dell’ascesi, ma ha anche sempre saputo condannare tali eccessi che riducevano la vita cristiana a un insieme di imprese eroiche. E ha saputo farlo anche con senso dello humour: «Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi e vantarsi» (Isidoro Presbitero). Quando si fa esercizio, si vuole prendere sul serio il fatto che non si possono servire due padroni e che l’alternativa all’obbedienza a Dio è l’obbedienza agli idoli. Anche l’interiorità va educata, anche l’amore va sempre affinato e purificato, anche le relazioni vanno rese sempre più intelligenti e rispettose: questo vuole l’ascesi! In particolare, esercitarsi significa aprirsi al dono di Dio, disporre tutta la propria persona a ricevere il dono di grazia. Possiamo riassumere la dimensione cristiana dell’ascesi in questa affermazione: la salvezza viene da Dio in Gesù Cristo. L’ascesi non è altro che l’accettazione a essere se stessi soltanto per grazia di Dio, è il dire di sì a ricevere la propria identità nella relazione con questo Altro. Senza questa dimensione il cristianesimo si riduce a un esercizio intellettuale, a una gnosi, oppure al solo attivismo volontaristico.

Di più, essendo a servizio della rivelazione cristiana che attesta che la libertà autentica dell’uomo si manifesta nel suo divenire capace di donazione di sé, per amore di Dio e del prossimo, aprendosi al dono preveniente di Dio, l’ascesi tende a liberare l’uomo dall’a­more di sé, dall’egocentrismo, e a trasformare un individuo in persona capace di comunione e gratuità, di dono e di amore. Ancora una volta, la tradizione cristiana antica mostra capacità di autocritica nelle parole di un padre del deserto:

 

«Molti hanno prostrato il loro corpo senza alcun discernimento, e se ne sono andati senza trovare alcunché. La nostra bocca esala cattivo odore a forza di digiunare, noi sappiamo le Scritture a memoria, recitiamo tutti i Salmi, ma non abbiamo ciò che Dio cerca: l’amore e l’umiltà».

Solo un’ascesi intelligente e condotta con discernimento risulta umanizzante e non disumanizzante. Risulta capace di aiutare l’uomo nel compito di fare della propria vita un capolavoro, un’opera d’arte. Forse non è casuale che askeîn sia utilizzato, nella letteratura greca antica, anche per indicare il lavoro artistico. Questo dunque il fine dell’ascesi: porre la vita del credente sotto il segno della bellezza, che nel cristianesimo è un altro nome della santità.

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Questa santità, che pure è dono di Dio, deve essere da noi accolta. Non potremo mai realizzarla senza disciplina e superamento di noi stessi. L’uomo non è spinto a Dio per forza: se non vi si orienta da sé, se non prega mattina e sera, se non dà importanza ai giorni del Signore, alle domeniche, se non ha mai a portata di mano un libro che gli richiami qualcosa dell’«altezza, lunghezza, larghezza e profondità» [Ef 3,18] delle cose di Dio, la vita gli scorrerà di continuo via, lontano dagli avvertimenti che da quelle cose discendono, e che fanno poco rumore. E quando dovrà rimanere con Dio si annoierà, avrà l’impressione di stare di fronte a qualcosa di vuoto.

Per l’uomo moderno i valori e i rapporti religiosi non hanno più importanza. Ma questa, per noi che abbiamo risposto ad una chiamata alla vita religiosa, è un’affermazione insensata, pur rendendoci conto che abbiamo bisogno di esercizio perché Dio ci divenga familiare, con la percezione di una presenza viva.

Impariamo così a vedere nell’ascesi non un freno o una violenza, ma un processo di crescita d’ogni vita degna di essere vissuta. Faremo bene a esercitarci nel modo in cui, per amore della misura, si frena un impulso; nel modo come si può lasciar perdere ciò che è meno importante ma allettante per quanto è più importante; nel modo in cui ci si prende noi stessi in mano per essere spiritualmente liberi.

Per esempio ci si potrebbe proporre: rimanere con la televisione o la radio spenta, per avere un po’ di silenzio in camera; o rimanere una sera a casa invece che uscire; o sapersi dire no qualche volta quanto al cibo, alla bevanda, al fumo, agli oggetti da comprare; o decidere di camminare verso il Signore con un po’ di determinazione, e così via. Una volta che ci si è fatti attenti a simili possibilità, troveremo di continuo occasioni di esercizio alla libertà: accettare intimamente una rinuncia; andare incontro con tranquilla cordialità a una persona antipatica; rendersi disponibili all’aiuto e alla condivisione; pregare nel silenzio e nell’oscurità, quando non ci vede nessuno, se non il Padre celeste.

Gesti del genere, in fondo, sono molto piccoli. Ed è proprio quello che possiamo fare. Perché, parlando di ascesi, non dobbiamo necessariamente mettere in atto rigorosi digiuni, veglie notturne, penitenze aspre, ma semplicemente un allenamento verso una vita bella e grande. Perché è a quello che noi siamo chiamati, alla grandezza della libertà e della verità.