La Congregazione delle Suore Orsoline del S. Cuore di Gesù Agonizzante

RITIRO ANNUALE 2006

Padre Armando Genovese, mSC


INTRODUZIONE - RACCOGLIERSI

Normalmente, quando si parla di Esercizi Spirituali, si intende un momento più o meno prolungato di raccoglimento. Il presupposto è che ognuno di noi ha i suoi impegni, e che gli impegni tengono impegnati oltre misura la nostra mente ed il cuore. Chi studia, studia. Chi lavora, lavora. Chi scrive, scrive. Eccetera. E nel compito che si tenta di realizzare ci sono già tanti problemi: se uno studia, ad esempio, e si prepara a laurearsi, ha già sufficienti preoccupazioni che lo assillano, e non gli verrà in mente di cominciare a studiare il russo. Tutti noi facciamo una selezione nelle nostre cose: questa la faccio adesso, quest’altra appena possibile. Il vangelo stesso ricorda: «Ad ogni giorno basta la sua pena» (Mt 6,34).

Questo che viviamo adesso è il tempo in cui dobbiamo riprendere quelle domande –e altre ancora– e tentare di rispondere. Ci riguardano, ci toccano terribilmente da vicino. Rispondere ad esse significa rispondere in qualche modo all’interrogativo della nostra vita: chi sono io? che ci sto a fare qui? che senso ha, per me, stare con gli altri?

Queste domande, di per sé, non sono particolarmente originali. Ma se c’è qualcosa di originale e di irripetibile, questo sta nel nostro incontrarci qui. C’è un’atmosfera del tutto particolare. Tutte le cose sembrano acquistare un’altra dimensione. È un tempo in cui ci sentiamo meglio disposti verso il silenzio. È quello che S. Paolo chiamerebbe il momento favorevole.

In questo clima scopriamo che, nel nostro cammino, abbiamo realizzato molte cose, alcune grandi, alcune piccole; che siamo diventati quello che siamo; ma che, nonostante tutto, abbiamo bisogno di rinnovarci. Perché qualunque cosa, anche la più grande che possiamo compiere, ha bisogno di essere riveduta e portata a perfezione. E perfezione, per noi, significa Cristo. Intendiamoci: quando diciamo che abbiamo bisogno di rinnovarci, non affermiamo qualcosa di misterioso o di magico, quasi che, aprendoci a Cristo, succeda qualcosa di misterioso o eccezionale... Le capacità rimangono le stesse. Famiglia e posizione sociale, possesso e predisposizioni sono quello che sono. Le giornate, l’ambiente, la comunità, con le sue persone e le sue circostanze, pongono gli stessi compiti di prima. Tutto, proprio tutto, rimane nella sua realtà. Ma allora che cosa cambia? Diciamo che si apre la porta, e si inizia grazie a Cristo un movimento verso l’alto.

Proviamo a descriverlo in questo modo: uno continua a vivere con le persone di sempre, ma al tempo stesso pensa a Cristo, cerca di capirlo, di parlare con lui, e i rapporti con gli altri cambiano. Non che uno possa acquistare sugli altri un potere nascosto, oppure che a contatto con lui gli altri non abbiano più i loro difetti... Magari fosse così! Probabilmente le cose saranno più semplici: a poco a poco, lui stesso si farà più paziente, più comprensivo, migliore, ma anche più perspicace, con l’occhio più vigile. Non sbaglierà facilmente a proposito degli uomini, ma guadagnerà una particolare attitudine a discernere quel che è necessario, anche se per il resto magari sarà poco scaltrito.

In altre parole: l’uomo cambia, orientandosi verso Cristo; ma non cambia, con questo, il suo impegno quotidiano: lo studente resta studente, il commerciante resta commerciante, la maestra resta maestra, la formatrice... formatrice. Restano da fare le stesse cose. L’automobile non diventa indistruttibile nelle sue mani, e le malattie non più facili da superare; se beve dieci bicchieri di vino continua ad ubriacarsi. Quando però compie il suo lavoro vivendo al tempo stesso con Cristo, qualcosa avviene in lui: si fa più serio e coscienzioso, e perde al tempo stesso la falsa valutazione del lavoro, e lo vede come ciò che realmente è. Lo stesso vale per fastidi, dolori e ogni pena dell’esistenza. La materia della vita rimane la stessa, eppure al tempo stesso cambia.

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Proviamo ad allargare la riflessione con alcune domande. Quante sono le strade dell’uomo? Da quante parti veniamo? Che domande banali... Veniamo da casa nostra, ci conosciamo, ci incontriamo, viviamo insieme. Non dovrebbe essere difficile rispondere a queste domande. Eppure, se proviamo soltanto un attimo a scendere più in profondità ci accorgiamo di una cosa: ognuno di noi viene da una particolare esperienza di vita, assolutamente particolare e singolare. A parte il fatto che ognuno di noi è un essere assolutamente unico e irripetibile –ed è bello pensare alla fantasia di Dio, che dall’origine del mondo ad oggi non ha mai fatto un uomo uguale a un altro–, veniamo anche da esperienze personali diverse: c’è chi studia e chi lavora, chi prende la vita con calma e chi con apprensione, chi corre e chi va piano. Ma per tutti si fa forte, in un certo momento, una domanda, quella domanda che da piccoli facevamo ai nostri genitori: perché? Già. A che serve quel che faccio? Dove sto andando in questo momento? A che punto sono del mio cammino? Come faccio a non sentire la voce del Signore che mi dice: «Dove sei, Adamo?».

Ora, a pensarci bene, chi può rispondere a queste domande? Sono domande impegnative, forse neanche una vita intera può bastare per rispondere. E poi... la risposta sta proprio dentro di noi? La possiamo attingere con le nostre forze? Mi vado sempre di più convincendo che il senso della vita, la verità di noi stessi, sono soltanto in parte nostre conquiste, sono piuttosto doni da accogliere nella pace del cuore, parole da ascoltare quando intorno a noi c’è silenzio. Ma come si fa a percepire il passaggio di Dio se non c’è silenzio?

C’è una parola magica che introduce negli esercizi: raccoglimento. Quando si parla di raccoglimento sembra di parlare di una cosa di altri tempi. E invece è condizione essenziale per una vita che abbia una sua stabilità, a livello psicologico e spirituale. Forse, per capire bene quello che vogliamo dire, vale la pena di chiarire prima in che modo la nostra esistenza si struttura.

La nostra esistenza è come tesa tra due estremi: il primo è l’interiorità dell’uomo, il suo intimo centro. Che cos’è questo centro? Non è facile; diciamo: il punto di riferimento, ciò che fa sì che le sue energie, le sue qualità, i suoi sentimenti e le sue azioni compongano non un insieme confuso, ma un’unità.

Questo è uno dei due estremi; l’altro è costituito dalle cose fuori di lui, dagli eventi, le situazioni, le relazioni; gli altri uomini, la loro vita, la loro attività, la storia. In breve, il mondo, così come ognuno di noi lo vede e lo sperimenta.

Fra questi due estremi oscilla la mia vita: continuamente io esco verso le cose, osservo, afferro, possiedo, modifico, ordino. Poi ritorno dentro di me, e mi domando: Che cos’è questo? Perché questa cosa è così? A quale rassomiglia, e in che modo si distingue da altre cose? Quando voglio fare qualcosa, non parto subito in quarta, ma rifletto: Che cosa mi serve? Che cosa esige la situazione? Mi decido e solo allora io trovo al di fuori la direzione e l’ordine per ciò che devo fare. Finito il mio lavoro, ritorno di nuovo a me stesso e mi esamino: è andato tutto per ordine? Mi sono comportato come si deve con la tale e tal altra persona? Ho fatto il mio dovere?

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Abbiamo semplificato, e di parecchio. L’uscita e il rientro, e di nuovo l’uscita e il rientro non si verificano una o due volte soltanto, ma innumerevoli volte; è un gioco ininterrotto di atti di cui è tutta fitta la nostra vita quotidiana. Sicché ciò che si verifica di fuori viene guidato e giudicato da dentro; viceversa, la realtà intima viene evocata, svegliata, alimentata da fuori. A questo punto potremmo domandarci: qual è il vero uomo? Date queste premesse, dobbiamo dire: quello nella cui vita gli estremi hanno equilibrio, quello che non si perde fuori, e non si consuma dentro.

Detto così, sembrerebbe semplicissimo. Ma, in genere, nella vita umana è diverso. La vita esterna spesso s’impone a quella interiore. Gli impegni, i compiti che richiede, l’affanno, le preoccupazioni… sono tutte cose che possono sbilanciare la nostra vita verso l’esterno. Nasce così l’uomo dissipato in mille e una cosa, il cui mondo interiore è debole e diviene sempre più debole.

Non si tratta di una novità, questa condizione si è sempre verificata, da che mondo è mondo. Però oggi la situazione si è fatta più pericolosa, perché gli stimoli che sono tanti e molto potenti, e lo diventano sempre più. Oggi l’uomo ha sempre qualcosa da fare, e spesso in un caos di cui egli non ha più il controllo.

Si va affermando un tipo d’uomo che non sa di avere un’interiorità. I fatti della vita lo agitano e lo spingono sempre più fuori. Si sente soffocare a starsene in camera sua; ha bisogno sempre di uscire. Non ce la fa a stare da solo; deve esserci sempre gente a casa sua. Passare la sera tranquillo a leggere un libro gli sembrerebbe uno spreco, perché lui deve sempre «fare» qualcosa di concreto. Riflettere, faccia a faccia con se stesso, sulla propria vita –sugli incontri, le azioni, le responsabilità, gli atteggiamenti interiori– lo mette a disagio; anzi, non sa neppure come fare una cosa del genere, e così, dopo appena un istante di concentrazione, sente una terribile necessità di fuggire. A meno che le cose non stiano ancora peggio: che non gliene importi proprio nulla di se stesso.

Chi vive così vive sempre proiettato verso l’esterno. Non sta fermo in nessun luogo, ma viene catapultato in ogni direzione. Non decide, ma gli capita d’essere da qualche parte. Non ha più convinzioni, piuttosto opinioni che gli vengono suggerite dai giornali e dalla radio. Non agisce più per intima iniziativa, ma a seconda degli urti che lo sollecitano dal di fuori.

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è chiaro che tutto questo ha un suo particolare significato nella vita di fede. Riflettiamo un attimo: in che cosa consiste una buona vita di fede? Nella coscienza della realtà di Dio; nell’essere consapevoli che Egli è, è presente nella nostra vita, che agisce, domina, guida. Questa coscienza poi si approfondisce e diventa consapevolezza che Dio soltanto è, in senso proprio e originario, reale per se stesso, e che ogni realtà finita è reale soltanto per mezzo di Lui e dinanzi a Lui; che solo Lui agisce in forma sovrana e creatrice, e che noi possiamo agire soltanto in Lui.

Ancora: che essere religiosi (religiosi intendo non soltanto in quanto appartenenti a una congregazione) vuol dire stare in colloquio con Dio. Dunque anzitutto parlargli. Ma, purtroppo, quando ci si rivolge a Dio, oggi per lo più ci si rivolge come a una nebbia, oppure semplicemente come davanti a sé senza la consapevolezza d’un tu. Quando io parlo con una persona umana, cerco con i miei occhi i suoi, prendo contatto con l’espressione della sua faccia, in modo da percepire come la mia parola arriva al volto che mi sta dinanzi. E attraverso il volto allo spirito che pensa; al cuore che sente; alla persona che esiste. Leggendo nel suo volto, io afferro le ripercussioni che vi si esprimono: afferro lui stesso. Sul colloquio con Dio c’è nei Salmi quest’espressione: Cercare il volto di Dio, parlare a Dio in faccia.

Tutto questo io posso, se resto con me, padrone di me stesso; se il mio spazio interno è aperto e se il mio interlocutore mi è chiaro, chiaro per lo meno nel senso che io cerco proprio lui. E purtroppo devo riconoscere che nell’esteriorità in cui per lo più mi trovo, nell’agitazione che mi sconvolge, Dio viene quasi cancellato. Le molte immagini delle cose, le molte facce degli uomini fanno sì che il volto di Dio difficilmente diventi chiaro!

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Fin qui abbiamo affrontato il discorso in maniera un po’ unilaterale, cioè soltanto come uno sporgersi, un proiettarsi dell’uomo, ma non ancora un dialogo. Per il dialogo occorre anche la voce seconda, la voce di Dio. Anzi, a dir la verità, questa voce è la prima. Perché noi possiamo parlare a Dio solo quando Egli prima ci ha parlato; possiamo rivolgere a Lui la parola solo se Egli la sveglia in noi.

Ma Dio come parla in noi? E come ci fa ascoltare la sua parola e ci fa rispondere con la nostra? Di continuo noi siamo colpiti dall’appello che il bene rivolge a noi: «Fammi, realizzami, introducimi nel mondo, affinché si formi il regno del bene!». A questo appello risponde una voce dal mio centro, la coscienza. Supponiamo che sia così: «Sì, lo voglio; ma come posso realizzarlo?». Allora, ecco che le cose, le relazioni, gli avvenimenti prendono figura: questa stanza, questa persona, questo colloquio, questo dolore. Ed io di fronte. E allora il bene si qualifica come quello che ora e qui io posso fare. Si volge a me, mi guarda, mi chiama: «Ecco che cosa puoi fare, ora, qui!» e la coscienza è la capacità di percepire l’appello, di comprenderlo e di decidersi: «Va bene, lo voglio!».

Tutto questo non va interpretato soltanto in senso morale, come qualcosa che si deve fare, perché il bene, in fondo, ha un significato religioso, è Dio, la sua santità; e l’esigenza di attuare il bene nel mondo è la sua voce. E la sua voce mi chiede di realizzare nel mondo il regno del bene, il suo regno, là dove sto, di ora in ora, a partire dalla situazione che via via di continuo nasce intorno a me e con l’aiuto della sua provvidenza.

La sensibilità a questo continuo appello del bene; la capacità di capire quando fare il bene, e in che modo; decidersi a farlo, con la disposizione di chi ascolta e con la fiducia di chi ce la può fare... tutto ciò è possibile unicamente sulla base di un atteggiamento interiore fatto di attenzione, di prontezza, di presenza davanti a Dio, che chiamiamo raccoglimento.

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Proviamo ad andare ancora avanti. Noi sappiamo, o almeno intuiamo, che tutta la nostra esistenza si attua nel rapporto io‑tu fra Dio e noi, che ci troviamo in un continuo dialogo con lui. Attraverso tutto ciò che ci accade, Dio ci parla; e noi impariamo ad ascoltare, a mettere insieme le cose, a dire anche la nostra a Dio. Potremmo dire, addirittura, che il nostro cammino di fede, in ultima analisi, consiste nel vivere il dialogo con Dio. Ma come possiamo riuscirci se viviamo continuamente distratti, lontani da noi stessi, tirati da ogni parte dalle impressioni che ci colpiscono? Questo dialogo può diventare vivo solo se sono attento, in ascolto, e in un ascolto pronto all’azione.

Quanto è stato detto circa il rapporto io‑tu con Dio vale in qualche modo anche per i rapporti con altri uomini. Posso vivere un rapporto con un’altra persona se non ho la capacità di riflettere sulle parole che ci diciamo, sugli affetti che ci comunichiamo, sugli stimoli che forniamo l’uno all’altro? Se questo non avviene, se il rapporto viene vissuto così come viene, è destinato a svilirsi, a svuotarsi di contenuto.

Ma dobbiamo andare ancora oltre. Perfino l’opera dell’uomo, almeno quella di un certo livello, può essere compresa unicamente nel raccoglimento. Come è possibile afferrare un’opera d’arte? Solo con l’attenzione e il rispetto che nascono dal raccoglimento. Naturalmente questo costa fatica: basta osservare qualche volta come la gente si comporta in una mostra d’arte o in una sala di concerto, e si nota subito se chi guarda o chi ascolta è disposto o meno, se ne è capace o no. Lo stesso si potrebbe dire ancora del nostro incontro con la natura, che viene incontrata correttamente soltanto da chi ha uno spirito raccolto e pronto a questo. E via dicendo.

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Raccogliersi significa, insomma, rendersi conto che la vita oscilla fra l’intimità della persona e l’esteriorità del mondo. E che bisogna diventare familiari con il proprio intimo. Tutto ciò non si ottiene senza sforzo, senza serio e prolungato esercizio; senza ascesi. Il termine –come vedremo– in greco significa esercizio. Ora esercizio significa svegliare una energia che dorme; sviluppare un organo atrofizzato; abolire una abitudine cattiva e formarne una giusta, e via dicendo. Per esempio, decido di non uscire anche se mi piacerebbe farlo, e rimango a casa e cerco di rientrare in me per mezzo di un lavoro tranquillo, di un libro, o anche per mezzo d’una onesta riflessione su me stesso. Se nella mia camera non c’è tranquillità, forse perché non ho una stanza tutta mia, allora entro in chiesa, mi siedo e sto solo con me stesso. Oppure: non permetto alla radio o alla televisione di distruggere la pace. Se vado per strada, cerco di non farmi distrarre da tutte le provocazioni che mi bombardano, il traffico, il chiasso, le persone, la pubblicità, le vetrine. Da ogni parte mi si chiama, mi si tira, mi si porta via da me. Un bell’esercizio resistere; non lasciarsi trascinare qua e là; restar calmi e con se stessi, e via dicendo.

In questo modo si rafforza il mondo interiore, si rientra in possesso di se stessi, nasce un’indipendenza interiore; tutto questo, beninteso, non per fare una predica moraleggiante, ma soltanto per indicare una vita degna di essere vissuta. Poiché la dispersione, il continuo vivere in movimento, agitati, fuori da noi stessi, rende vuoti. Ne va del significato della vita stessa. Questo sarà possibile solo sottoponendoci spesso a un esame del genere: Come è passata questa giornata? Quali sono stati i miei atteggiamenti e reazioni? Qual è stato il criterio che ha guidato le mie azioni? O mi sono lasciato soltanto incalzare dalle cose? La mia vita forse mi rende difficile rientrare in me stesso? E come si potrebbe cambiare?

E poi e soprattutto: cercare il volto di Dio. Realizzare quella che è la verità fondamentale della mia esistenza: Dio è l’eternamente esistente, il solo vivente assoluto. Egli è qui. Egli è Colui che è, io invece sono grazie a Lui; sono qui davanti a Lui; sono semplicemente perché Egli lo vuole. Questo «Lui ed io... io davanti a Lui... io grazie a Lui»; questo stare in ascolto della sua parola; questo cercare e dire: “Tu, o Dio”: è questo che rende viva e salda la mia interiorità.

Questo è il proposito dei nostri esercizi. Ma senz’altro è compito di tutta la vita. E non mi meraviglierei se ci volesse un po’ di tempo per portare tutto alla coscienza e per realizzarlo. Quel che importa veramente è cominciare.